L’interesse dei filosofi per il cinema è precoce: già nel 1907 H. Bergson vi aveva visto una conferma delle sue idee sul tempo. Tuttavia solo in epoca relativamente recente l’area che interseca cinema e filosofia ha raggiunto un’espansione tanto significativa che include non solo una vasta letteratura specialistica (non più limitata a temi estetici o sociologici) ma coinvolge anche il grande pubblico attraverso convegni, manifestazioni, eventi, festival. Non c’è ormai nessun manuale di filosofia per le scuole superiori che non presenti sezioni o schede dedicate al cinema. Le potenzialità didattiche e il coinvolgimento emotivo dei film sono mezzi efficaci per introdurre temi astratti e complessi (si pensi all’onnipresente Matrix che allude a questioni come il contrasto fra apparenza e realtà, il problema mente-corpo, l’intelligenza artificiale).
Il rapporto fra cinema e filosofia si stabilisce su piani diversi: ci sono film che hanno un dichiarato o evidente intento divulgativo (come il ciclo sui filosofi di R. Rossellini) e ce ne sono altri che riprendono tesi di filosofi ma le presentano nel quadro di una sceneggiatura che conferisce loro un’atmosfera impossibile da rendere nel testo scritto (come accade nel caso di I. Bergman). Infine c’è la categoria più ambiziosa, ed è quella che qui interessa, dei film che intendono fare filosofia in proprio.
Non c’è nessuna ragione per rifiutare o sminuire le funzioni pedagogiche e divulgative che i film possono avere, per tale scopo l’efficacia dell’immagine non è da mettere in dubbio (benché non di rado la relazione tra film e tesi filosofiche appaia occasionale o pretestuosa). Ciò su cui invece occorre riflettere è quanto sia fattibile sostituire il pensiero astratto con le immagini. L’alternativa è netta: o il cinema traduce in immagini ciò che è già stato espresso in linguaggio verbale, e allora è divulgazione, oppure ha l’onere di provare che vi sono contenuti filosofici che non possono essere espressi in un linguaggio verbale e dunque che esiste una fonte di conoscenza filosofica non solo non verbale, o intuitiva, ma specificamente cinematografica.
Il tema delle “immagini pensanti”, per usare un’espressione che compare nel titolo di una fondamentale silloge di R. Sinnerbrink, è stato posto da autorevoli esponenti della “filosofia del cinema” come J. Cabrera, S. Cavell, D. Bordwell, N. Carroll, T. Wartenberg. Questi autori difendono una tesi forte per la quale il cinema può “fare” filosofia dove “fare filosofia” non significa banalmente che i (alcuni) film contengono, esprimono o suscitano pensieri. Il pensiero è ovunque e dunque anche nel cinema. “Ci deve essere – per dirla con le parole di T. Wartenberg – un nesso speciale fra filosofia e cinema tale che un film è un’opera filosofica e non solo un’illustrazione di un’opera filosofica”.
È istruttivo che la perplessità che si prova nel rispondere alla questione se un film possa essere un’opera filosofica originale non la si provi nel porre la stessa domanda riguardo alla scienza: un film può divulgare la scienza ma non può farla. Ed è intuitivo che il cinema sia più prossimo alla letteratura che alla scienza: entrambi raccontano, emozionano, immaginano e questo conta più della diversità del mezzo. Dopotutto il cinema è la settima arte non la settima scienza. Allora è evidente che la domanda se il cinema può fare filosofia dipende da cosa si intende per filosofia: è questa più prossima alla scienza o alla letteratura?
A differenza della scienza i filosofi non condividono assunti, metodi, linguaggi o principi standardizzati. Riprendendo una classificazione consolidata, e in maniera estremamente semplificata, si può dire che esistono due modi diversi di concepire la filosofia: per alcuni fare filosofia significa argomentare, dimostrare, fornire ragioni a sostegno di una tesi. Per altri significa evocare, suggerire, intuire. Dalle due prospettive si possono derivare concezioni opposte del rapporto tra filosofia e cinema, alle quali si possono ricondurre, a titolo esemplificativo e per nominare solo due autori, quelle di J. Cabrera e di T. Wartenberg.
J. Cabrera ha introdotto la nozione di “concetto-immagine”. Ora, non è in discussione che le immagini possano contenere concetti o che svolgano un’importante funzione cognitiva. Ma l’immagine è un concetto se e quando è interpretata, non solo vista. Il concetto-immagine non è un concetto ma la metafora di un concetto. La metafora di x non è x: se dico “Brigitta Papera è bella come un fiore” non intendo parlare di un fiore ma di Brigitta Papera. La storia delle scoperte scientifiche è ricca di intuizioni “visive” (etimologicamente è un pleonasmo). Einstein dichiarava di pensare per immagini, ma non si esimeva dalla successiva “fatica del concetto”, e infatti la teoria della relatività è in forma matematica. Non è chiaro come si possa tradurre un sistema assiomatico deduttivo o argomentativo in una successione di immagini.
T. Wartenberg (autore fra l’altro della voce Philosophy of Film per la Stanford Encyclopedia of Philosophy) è vicino a una concezione della filosofia come argomentazione razionale, ma i casi che discute non sembrano conclusivi. Per esempio quando assume gli esperimenti mentali come termine medio che tiene insieme alcuni film, particolarmente di fantascienza, con quelle tesi filosofiche che ne fanno uso. In realtà ogni opera di letteratura può essere considerata un esperimento mentale, e alla fine questo argomento porta alla conclusione che tutto è filosofia. Il risultato è che la filosofia è dissolta, avendole negato qualunque specificità. Filosofare non è semplicemente pensare: è un modo di pensare. Questo modo ha anche un suo mezzo di elezione che è il linguaggio verbale il quale, a sua volta, nella specie homo sapiens, è anche il veicolo privilegiato del pensiero astratto. Ciò che si può fare con il linguaggio verbale non si può fare con altri mezzi espressivi: si può dimostrare un teorema ballando o cantando?
Dante, che di immagini e di letteratura se ne intendeva, è ben attento a non confondere piani diversi: “ché non è impresa da pigliare a gabbo / discriver a fondo a tutto l’universo, / né da lingua che chiami mamma o babbo” (Inf. XXXII, 7-9).