Firenze – Il festival internazionale Cinema e donne ha presentato ieri sera, al cinema La Compagnia, ChiantiShare di Carolina Mancini, un cortometraggio girato in una casa del popolo del Chianti fiorentino, a Mercatale in Val di pesa, in cui viene organizzata una scuola di italiano per stranieri.
La scuola è aperta a tutti gli stranieri che vivono in Chianti: ci sono, ad esempio, una coppia di anziani signori del Nord Europa e alcuni ragazzi africani. La scuola forma una piccola classe di stranieri con l’obiettivo di insegnare la lingua italiana usando anche forme di recitazione teatrale. Un esperimento socioeducativo che sembra essere molto importante in una società che spesso stigmatizza gli immigrati, separandoli nettamente dagli stranieri ricchi e occidentali.
Dopo il corto della Mancini, è stato presentato “Senza Rossetto”, un documentario di Silvana Profeta ed Emanuela Mazzina, presenti in sala insieme alla direttrice del Festival, Maresa D’Arcangelo. “Senza Rossetto” è un progetto che vuole raccontare, attraverso una serie di interviste, l’esperienza vissuta dalle donne che votarono per la prima volta nel marzo del 1946 e, successivamente, il 2 giugno dello stesso anno, per scegliere la forma istituzionale da dare all’Italia, monarchia o repubblica.
Il film, nato nell’ambito dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio Democratico, è stato costruito dalle autrici come un mosaico di voci femminili connesse da frammenti di immagini documentarie dell’epoca fascista. Le donne intervistate raccontano il fascismo, la guerra e la nascita della repubblica da punti di vista geografici differenti. Il film crea un racconto orale e interclassista, borghese e popolare, che testimonia la storia di donne che hanno vissuto nelle città e nelle campagne del Sud e del Nord Italia.
Il film vuole far emergere uno spaccato sociale femminile plurale che esprime ideali e visioni politiche differenti: tra le intervistate, ad esempio, c’è chi ha scelto la repubblica, ma anche chi ha scelto la monarchia, senza però difendere il fascismo. Il titolo del film, “Senza Rossetto”, vuole ricordare che le donne non dovevano avere il rossetto sulle labbra, al momento del voto, per non sporcare la scheda che doveva essere umettata e incollata.
Il suffragio femminile nel 1946 fu determinante per l’affermazione dei diritti delle donne e per la costruzione di una vera democrazia. “Senza Rossetto” compie un viaggio nella memoria storica dell’Italia, dando voce a un mondo femminile che spesso resta invisibile, nascosto dalla “Storia” raccontata soltanto da alcuni “personaggi” famosi della cultura italiana.
Il festival Cinema e donne ha presentato quindi “Soupirs d’âme”, di Helen Doyle, nota regista canadese. La regista, presente in sala, è un’artista e cineasta indipendente che nel 1973 è stata tra le fondatrici in Quebec del gruppo Vidéofemmes. Fin dall’ inizio del suo percorso artistico ha realizzato documentari sulla condizione femminile in modo originale e anticonformista.
La cineteca del Quebec le ha dedicato un’importante retrospettiva nel 2009. Nel 2015 è uscito il cofanetto “La liberté de voir”, che riunisce i suoi film e una monografia a lei dedicata. Il festival Cinema e donne 2018 le consegnerà il premio Gilda alla carriera e sta mostrando in questi giorni alcune opere dell’autrice.
In “Soupirs d’âme”, Kate O’Dowell, alter ego della regista, vive il trauma di essere stata adottata dai genitori. La sua infanzia la inquieta e la sua difficile storia riemerge in modo doloroso dopo la morte del padre adottivo. Il suo trauma personale le fa scoprire e condividere la situazione drammatica dei bambini slavi abbandonati nell’orfanotrofio di Sarajevo durante la guerra in Bosnia.
Kate inizia il suo viaggio verso Sarajevo dopo aver conosciuto il fotografo francese Louis Jammes, che ha fotografato i bambini durante la guerra. La protagonista nel film è anche danzatrice, un’artista che riscopre un’immagine di sé rimossa: tra paura e desiderio, riemerge il ricordo di Linda, la bambina che sarebbe dovuta diventare sua sorella incontrata nell’ orfanotrofio. Lo stile narrativo compone un racconto autobiografico in cui le immagini si dissolvono e rinascono, mostrandoci il flusso della memoria, del sogno e della vita vissuta. Kate, in dialogo virtuale e spirituale con l’amata “sorella” Linda, scopre, attraverso un dolore personale, un dramma collettivo che ha colpito i bambini slavi uccisi o abbandonati e continua ad essere una ferita aperta in ogni guerra contemporanea.
“Tracking Edith”, di Peter Stephan Jungk, è stato presentato in sala dalle produttrici Clara e Karoline Burckner, insieme alla direttrice del Festival. Peter Stephan Jungk, noto scrittore e documentarista austriaco che ha vissuto tra gli Stati Uniti e l’Europa, ha deciso di intraprendere una ricerca documentaria sulla famosa fotografa e spia sovietica Edith Suschitzky, cugina di sua madre.
Edith Suschitzky, ebrea viennese comunista, ha vissuto profondamente il periodo tra le due guerre, in cui gli ideali del comunismo e del pensiero marxista sono stati vissuti da un’intera generazione intellettuale come una speranza di cambiamento rivoluzionario della società capitalistica e un antidoto al nazismo e al fascismo. Edith, cresciuta in una famiglia viennese socialdemocratica, studia fotografia al Bauhaus e pratica subito una ricerca estetica in profondo contatto con i problemi sociali del suo paese.
Disoccupazione, scioperi e attivismo politico della sinistra saranno i soggetti privilegiati dei suoi scatti fotografici in bianco e nero. Edith, durante gli anni di formazione viennese, ha incontrato Arnold Deutsch, giovane spia sovietica. Il fidanzamento con Deutsch le ha permesso di entrare a far parte dei servizi segreti russi. Nel 1933 si sposa con il medico Alex Tudor-Hart a Vienna, ma a causa dell’ascesa del nazismo i due giovani coniugi decidono di fuggire in Inghilterra. In Inghilterra il contatto principale per Edith è Litzi Friedmann, amica viennese che aveva sposato Kim Philby.
La Tudor-Hart fa entrare in contatto il KGB e Philby, che diventerà il famoso agente segreto britannico doppiogiochista che lavorò per i russi tra gli anni trenta e sessanta. La fotografa viennese aiutò i russi a reclutare giovani comunisti altoborghesi che, in nome del comunismo, tradirono l’Inghilterra, i cosiddetti Cambridge Five. Personaggio chiave dello spionaggio sovietico a Londra, Edith fece da tramite anche tra il fisico viennese Broda e il KGB. Il Fisico Broda svelò ai sovietici informazioni fondamentali sulle ricerche nucleari in corso sia in Inghilterra che negli Usa.
Il Nipote Jungk ricostruisce la storia di Edith, raccogliendo una serie di interviste, ad esempio, al fratello Wolf e ai nipoti, ad alcuni storici e curatori, ad ex agenti segreti del KGB e, infine, alla direttrice del ONG ‘Memorial’ di Mosca, associazione che difende la memoria delle vittime dello stalinismo. Il ritratto che emerge della Tudor Hart, come viene sottolineato dall’ ex KGB Alexander Vassiliev e dalla direttrice della ONG Irina Scherbakova, rivela che l’artista non era mai stata in Russia e che quindi non aveva visto in opera le nefandezze del regime stalinista. Il significativo e affascinante film di Jungk propone di riaprire un intricato e complesso periodo storico, in cui il nesso tra ideologia e prassi politica, tra fede ideologica, libertà di pensiero e totalitarismi necessita di un approfondimento, in nome della ricerca della verità e della storia morale dei singoli individui, spesso schiacciati da categorie astratte e da una difficoltà reale di conoscenza storica.