Parlare a bocce ferme delle dispute (possono mai le bocce essere realmente ferme?) è un ottimo modo, quantomeno, di mantenere quel minimo di lucidità che apparirebbe necessario alla realizzazione di un qualsiasi ragionamento. Ed è appunto oggi che, una volta chiuse le urne, ci azzardiamo a prendere in mano il discorso di questa lunga tornata di campagna referendaria; non tanto per commentare il risultato (crediamo ci saranno già in tantissimi, senza dubbio anzi troppi, a farlo) quanto per discuterne lo spirito. Dal punto di osservazione dei social network, checché se ne dica un punto assolutamente privilegiato e ricco di spunti, abbiamo potuto assistere alla messa in scena di uno psicodramma davvero straordinario: eccezionale la durata, enormi le ripercussioni, elevatissimo il prezzo del biglietto. In un sol colpo gli italiani tutti hanno vendicato centinaia di anni di poltrone di teatro andate deserte grazie alla partecipazione massiva ad uno spettacolo tanto mediocre nei contenuti quanto interessante nelle dinamiche.
Quanti, in possesso di memoria e capacità di giudizio, abbiano la ventura di ripercorrere il lungo iter del processo della modifica costituzionale discussa poc’anzi potrebbero, una volta riacquistato l’uso dei sensi ottusi da mesi di propaganda serrata, apprendere che già nel 1948 appariva chiaro come la Costituzione, così come era stata redatta, non era funzionale all’esercizio delle attività di governo ed amministrazione del territorio italiano: troppi i passaggi, troppi i meccanismi di sicurezza, concepiti per ovvi motivi storici ma anche evidentemente sfruttabili a fini ostruzionistici. Dopo tanti tentativi falliti, nel 2014 la legge di riforma, appoggiata dalla Boschi (ma ovviamente messa giù dai soliti tecnici che sono trasversali a qualsiasi governo) passa al Senato con una maggioranza bulgara: lo stesso Senato che la riforma in questione si propone di cambiare drasticamente. E’ solo nel successivo passaggio alla Camera che le cose cominciano a cambiare; l’opportunità di muovere battaglia al Governo Renzi su questo campo è già stata intravista, e la successiva mossa del premier – personalizzare il referendum, se non passa la riforma, lui lascia – viene colta con incredula gratitudine.
Evidentemente, il fiorentino non ha valutato bene quale sia la vera natura della sua opposizione, che lui in questo momento pensa preponderantemente interna al suo partito, e si è esposto agli effetti di secoli di incultura italiana nel campo della politica. Ovvero, ciò che oggi definiscono il sentimento dell’antipolitica. Il risultato, lo vediamo oggi: alle urne, a votare No contro la riforma c’è stato un buon 80% di cittadini motivata dalla voglia di tirare giù lui, in persona. Il restante 20% pure, ma per motivi politici, non personali; perché affiliati alla parte avversa, o perché prezzolati, o perché hanno stimato di potergli dare una lezione di umiltà per poi farne uno strumento utile. Anche loro, probabilmente, sbagliando la stima, perché le dimissioni istantanee pregiudicano in maniera decisiva questo argomento. Per una volta, il popolo italiano ha pensato con questa consultazione di poter dare un significato concreto alla parola “partecipazione”, la stessa che cantava Gaber accorpandola al concetto di libertà; disgraziatamente, Giorgione nostro viveva, beato lui, ancora in un mondo in cui il tenue velo dell’illusione del voto libero non era ancora stato fatto completamente a brandelli.
Oggi non possiamo chiudere gli occhi di fronte all’evidentissima potenza persuasiva dei media messi in campo dalle rispettive fazioni, ai tanti mezzi e mezzucci utilizzati, ai ricatti, alle promesse, alle regalìe; alcuni strumenti hanno funzionato alla grande, altri meno, altri ancora sono arrivati troppo tardi per poter sortire effetti sulle urne, ma dispiegheranno la loro forza solo più avanti, dopo una assenza per così dire carsica. Il bilancio di tutto questo oggi è troppo presto per tracciarlo, nonostante gli sforzi dei tanti eminenti sociologi, politologi, cronisti e invasati vari che si stanno sbracciando, stappando spumanti, scrivendo dissertazioni, recitando il mea culpa o il confiteor (tutto fa brodo). Di certo c’è che ha avuto in questa partita un ruolo fondamentale quella cosa che oggi va tanto di moda chiamare storytelling; ovvero, ve l’hanno raccontata su. E’ diventata una questione di orgoglio, di fede, di nazionalismo; di difesa dei diritti costituzionali e di rispetto ai martiri antifascisti, di lotta al qualunquismo e al populismo, di libertà, di liberazione, di modernità, di rispetto, di partecipazione alla cosa pubblica, eccetera. E la cosa straordinaria è che il tema così formato è stato offerto da entrambe le parti; l’una ha imputato all’altra in molti momenti esattamente le stesse colpe, ha opposto gli stessi diritti, ha tacciato gli altri delle cose delle quali gli altri la tacciavano.
Una verità che l’italiano medio, di fronte a una trama appena più intricata – ma non troppo, intendiamoci – di quella di una normale telenovela spagnola, ha mal compreso o ignorato del tutto. Troppo difficile; meglio votare di pancia, come sempre. Di qui, l’errore renziano di non comprendere come il nemico peggiore è sempre quello che appare al momento sul piedistallo, qualunque cosa stia facendo, non importa se giusta o sbagliata; l’importante è che sia una testa coronata, e che il villico che gli tira la zolla sia al riparo dalle rappresaglie, perso in una folla di volti anonimi come i suoi. Una verità per la quale dalla Presa della Bastiglia in avanti ci lambicchiamo il cervello per capire perché accada, ma che i potenti, quelli veri, hanno imparato a tenere da conto: il potere si esercita in maniera dimessa, quasi servile, silenziosa, da dietro le quinte. Pecca di grande immaturità politica chi non capisce questa lezione fondamentale. Gli italiani, dal canto loro, hanno dimostrato invece come il livello della coscienza politica italiana, e soprattutto della capacità di partecipare alla discussione del governo della cosa pubblica, sia fermo alla lotta tra Oriazi e Curiazi, o se vogliamo evoluto sino alle altitudini del derby Roma – Lazio; chi se ne frega della vita sociale, vogliamo il gol e poi a fare i girotondi col gomito sul clacson.
Chi perde perde, possibilmente la parte che abbiamo designato come avversa, così possiamo dire “NOI abbiamo vinto”, il che rende in certi momenti tutti gli italiani juventini, da Enna a Bolzano. Lo scatenarsi delle offese personali e alle mamme, dei bannamenti, della rottura di amicizie decennali sui social lo testimonia: l’importante non è vincere, non è partecipare, ma partecipare al linciaggio e si spera anche ai festeggiamenti; del diman non v’è certezza. Un simile livello di livore e di immedesimazione colla campagna elettorale (ci sono ancora dubbi in proposito?) non si era ancora mai visto; mai vista così come oggi una simile esposizione nel rendere pubblico ai quattro venti quale sarebbe stata la decisione alle urne, rendendo del tutto vano il meccanismo della segretezza del voto che, lo ricordiamo, è anch’esso uno strumento indispensabile, oltre che di sicurezza personale, certamente di democraticità. Di una cosa siamo grati: che ai tempi delle decisioni pro e contro aborto e divorzio, pro e contro Repubblica e Monarchia Facebook e Twitter non esistessero ancora.
Altrimenti, i morti scaturiti dalle rappresaglie post liberazione, che oggi si spiegano tutte col carattere italico, sarebbero stati pochi al confronto con le stragi che ne sarebbero seguite. Su tutto, la sensazione che nel nostro Belpaese la possibilità di andare avanti sia fortemente illusoria, se pensi che la gente ha finito col votare a man bassa gli stessi figuri che per vent’anni ha fatto di tutto per ingiuriare, e oggi li vedi pure contenti (aspettiamo il prossimo calo di serotonina). La capacità di andare avanti però potrebbe essere invece testimoniata dal tesoro della lezione appena impartita, non certo agli italiani, ma a quel corpo politico che, un tempo delegato dalle masse per esercitare in loro vece l’amministrazioni dei diritti e dei poteri, poi organismo simbiotico e infine spesso parassitario, oggi si è evoluto in un vero e proprio sistema capillare e fortissimo senza il quale il resto del corpo, ormai inetto, andrebbe rapidamente a farsi fottere, nonostante le tante fatiche degli anarchici nello spiegare che l’autonomia di pensiero è fondamentale. Parliamo, ovviamente, della classe politica tutta, non necessariamente la sola classe politica italiana, che oggi ha portato a termine un corso di aggiornamento duro ma necessario: è vero, gli italiani non votano l’elezione del Presidente del Consiglio, ma se glie ne si dà la possibilità possono certamente votare la sua destituzione. Quindi, come conseguenza, potrebbe essere un’ottima cosa metterli in condizione di non farlo mai più. Vedete un po’ voi se il discorso vi sembra che fili.