Firenze – Un pezzo di “docu-teatro” si potrebbe definire l’atto unico “Ciao” tratto dal libro omonimo di Walter Veltroni di scena alla Pergola fino al 2 aprile. Un singolare dialogo fra due persone, un padre e un figlio a parti fisicamente rovesciate (il padre trentasettenne e il figlio sessantenne), durante il quale si cerca di dare un carattere, un’identità e un flusso di pensieri ed emozioni a un uomo morto quando il figlio aveva un anno, lasciandolo da solo per tutta una vita a immaginarsi una figura paterna solo raccontata da altri.
Teatro documentario perché la pièce diretta da Piero Maccarinelli e interpretata da Massimo Ghini (Walter) e Francesco Bonomo (Vittorio) propone le immagini e i documenti che l’autore ha raccolto per ricostruire la vita del genitore, giornalista che fu tra i protagonisti della rinascita democratica della radio prima e della televisione poi.
Gli spezzoni degli archivi Rai scorrono su due grandi finestre dello studio dove Walter sta terminando il suo libro e dove improvvisamente compare quel personaggio di cui può conoscere solo poche tracce pubbliche e private del suo passaggio terreno. Grandi eventi in bianco e nero politici, sportivi, culturali che Vittorio ha vissuto da giornalista libero e creativo. Il funerale di Stalin, la tragedia di Superga, le vittorie di Coppi e Bartali, i primi esperimenti televisivi, la scoperta di Mike Bongiorno che avrebbe voluto essere chiamato Michael.
Ma possono reportage e aneddoti esaurire una personalità complessa come quella di un giovane che è passato attraverso l’esperienza del fascismo, il suo contributo alla lotta antifascista, le sue ambizioni, i suoi affetti, i suoi entusiasmi e le sue delusioni?
Il fantasma di Vittorio diventa inevitabilmente lo specchio nel quale Walter riflette se stesso. Le domande che gli rivolge sono in realtà frutto dei dubbi e degli interrogativi di una società di “fratelli orfani” che si sono illusi di rendere il mondo più giusto e felice e che, ormai maturi “con il traguardo più vicino della partenza”, volgono lo sguardo a quello che hanno detto e fatto i loro padri. Perché è andata così? Che cosa avrei potuto fare non solo per restare fedele al messaggio ricevuto, ma anche per consolidare e se possibile sviluppare l’eredità di principi e di valori che mi è stata passata?
Nei momenti in cui parla con se stesso, come in una confessione interiore, quando non è solo il figlio orfano che si fa abbracciare dai vestiti del babbo invisibile, ma è l’esponente che ha guidato una stagione importante della storia politica d’Italia, il docu-dramma diventa un pezzo di vero teatro che coinvolge il pubblico. Siamo un paese in crisi e non avremo salvezza finché la politica resterà “una fabbrica di carriere e di potere” : quello di Walter è un grido, più che una meditazione.
Ottimi i due protagonisti, il maturo Ghini e il giovane Bonomo. Il primo ha dovuto affrontare il ruolo difficile di un personaggio ben vivo e presente nella mente degli spettatori. Inevitabile dunque che abbia tentato di riprodurne sulla scena stile e passioni. Bonomo è un credibile giovanottone entusiasta del primo decennio del dopoguerra innamorato del suo mestiere.
Ciascun personaggio è ben caratterizzato anche dalla rispettiva colonna sonora: Walter dal pianoforte più intimista di Keith Jarrett; Vittorio da “Singing in the rain”, brano super-pop cantato e ballato da Gene Kelly, l’inno della felicità creativa del dopoguerra.
Foto: Massimo Ghini, Piero Maccarinelli, Francesco Bonomo (credit: Filippo Manzini)