Che fine ha fatto la roboante inchiesta sul caso dell’omicidio di don Amos Barigazzi, riaperta per motivi non chiari dalla Procura reggiana dopo 20 anni? Che ne è della linea telefonica aperta in questura per raccogliere testimonianze di presunte vittime dell’allora (vivo) sacerdote specie dalle parti di via Bismantova in città dove la sua morbosità pastorale si sarebbe concentrata in modo particolare prima dell’esilio (con relativa soppressione) in quel di Montericco?
Non se ne sa più nulla, dopo un paio di puntate della trasmissione “Chi l’ha visto”, interviste tv al primo trans di Reggio Antonio Capone oggi a capo di una confraternita non riconosciuta, qualche copia di giornale venduta in più e una bella dose di pubblicità a favore di qualche inquirente e poliziotto di seguito. E l’ulteriore amaro in bocca della famiglia Barigazzi che, dalla frazione di Albinea, continua a chiedere giustizia cadendo ingenuamente nella rete del media-sytem associato alle indagini colpevoliste. Giustizia a tutti i costi, anche a scapito della memoria.
Dal nostro modesto pulpito avevamo messo in guardia l’opinione pubblica dal cadere nel trappolone preparato con cura e oliati meccanismi: il sospinto clamore sulla riapertura di un caso drammatico quanto ad oggi ancora avvolto nel mistero, in assenza di novità, sarebbe stato molto pericoloso. Non tanto per noi vivi (tra cui si cela probabilmente anche il colpevole del delitto). Quanto per i morti.