E’ un coro di “grazie maestro”, con la lettera almeno a carattere minuscolo ma già abbastanza consistente da risultargli sgradito fosse stato ancora in vita. Ma maestro di cosa si chiedono all’unisono i confessionali di professione ed i tiratori di giacchette da appioppare ad ogni lutto di super-vip? Eppure invero una certa qual maestrìa il fu Franco Battiato l’ebbe certa.
Anche chi vi scrive, che l’ha ascoltato assiduamente per 20 anni ed ancora si sollazza con le sue atmosfere misticheggianti, cristianeggianti, buddisteggianti, induisteggianti, scintoisteggianti e sufisteggianti (francamente lascerei perdere la gnosi, l’esoterismo e l’ermetismo, piuttosto parlerei di sincretismo traditional-pop), e via di -anti in -anti, più che un guru, con questo suo costante richiamo ai valori generali ed anche generalisti di eterni ritorni, cicli energetici, nascite sumeriche e rinascite fenicie, trasmigrazioni di anime assiro-babilonesi e metempsicosi di larve cartaginesi, dissoluzioni impersonali ed assoluzioni personali, l’ha sempre trovato più che altro un paraguru.
Quando lo ascolti perché ti senti che più ctonio, misero e materiale non si può, ti pare di elevarti nello spazio-tempo là dove osano gli asceti almeno per 5 minuti, la durata di un paio di motivi. Mentre sfilano note e musica dell’aedo catanese, ti credi un derviscio rotante nel centro universale permanente all’epoca del Big Bang. Ed invece sei lì in macchina che smadonni in mezzo al traffico dell’ora di punta. Umano tra gli umani.
Della serie decida un comportamento e si dia un’etica consequenziale. Senza tante conversioni od inversioni ma solo immersioni in una musica leggera spirituale. Come quelle essenze volatili che lui ha cantato per una vita. Quelle ombre dalle origini incerte che generano solo un flusso impalpabile di domande e non file di rigide risposte. Un po’ umorale, se vuoi, fors’anche amorale, probabilmente però immortale. Lui bonzo, noi gonzi. Dite poco?