Centri per l’impiego, poche forze e precarie

Firenze – “Possiamo stare sufficientemente tranquilli, così ci hanno risposto dalla dirigenza”. Ma Romina e Alfonso, due dei 55 dipendenti precari dei centri per l’impiego fiorentini in attesa del rinnovo del contratto entro fine anno, tranquilli lo sono poco. Comprensibile: in mancanza del rinnovo, andranno a casa pure loro. Come le decine di disoccupati e cassaintegrati cui tentano di trovare lavoro e che ogni giorno ingrossano le fila nei vecchi uffici di collocamento. Un tipico paradosso all’italiana, dunque. Tanto di più che nelle intenzioni del Governo, i centri per l’impiego (CPI) “devono essere potenziati, anche alla luce del programma Garanzia Giovani”, il progetto europeo ideato per offrire ai giovani Neet (chi non studia e non lavora), tra i 15 ei 29 anni, delle opportunità di lavoro e di formazione. Ma a sei mesi dalla partenza del programma, ufficializzata scaramanticamente il primo di maggio, i CPI non solo non stati potenziati ma rischiano il collasso per mancanza di fondi e di personale. Infatti, con i tagli alle Province previsti nella legge finanziaria, dal 1 gennaio del prossimo anno, i 545 centri per l’impiego italiani rischiano di chiudere e i 7500 addetti di perdere il posto.

Inoltre non è nemmeno chiaro a quale ente faranno riferimento: “Dal 1 gennaio prossimo, i CPI dovrebbero essere di competenza della città metropolitana– spiega Romina, da 14 anni dipendente con contratto a termine al CPI del Parterre- ma la questione è ancora tutta aperta, perchè le deleghe della legge Delrio (quella sulla riforma delle province, ndr) ancora non sono state assegnate”.

Oltre a ciò, nel Jobs Act è prevista un’Agenzia Nazionale del Lavoro che dovrebbe accorpare i centri per l’impiego territoriali in virtù di una gestione unica e centralizzata, sulle orme del modello tedesco tanto ammirato da Renzi. “Nel Jobs Act si parla dell’istituzione dell’Agenzia, ma non viene precisato quali strutture coinfluiranno in essa. Sono molti gli istituti e centri che si occupano di lavoro, dall’Isfol al Cnel, non solo i CPI– continua Romina, che solleva anche qualche perplessità di natura costituzionale– I centri per l’impiego si occupano di due settori, lavoro e formazione. Mentre il primo è di potestà sia nazionale che regionale, la formazione è di competenza regionale. Dunque, per la creazione di un’unica Agenzia nazionale, che incorpori anche il lavoro dei CPI, si dovrebbe riformare il titolo V della Costituzione”.

Niente di più facile e veloce, insomma. L’unica soluzione percorribile potrebbe essere un’altra: la creazione di un’Agenzia regionale. E questa potrebbe rappresentare una buona occasione anche per ristabilire un po’ d’ordine in un settore estremamente frammentario: “A Lucca ci sono due cooperarive che assumono personale poi impiegato nei CPI; a Prato un’agenzia esterna, mentre solo a Firenze e Pistoia i dipendenti dei CPI sono stati assunti con un concorso, nel 2009. Ma abbiamo colleghi assunti persino con la partita IVA”, aggiunge Alfonso. Un settore dunque complesso, ma che è alimentato da tanti soldi europei, quelli del Fondo Sociale Europeo: 6,5 miliaridi di euro concessi dall’Europa all’Italia per i percorsi di formazionie e inserimento al lavoro, di cui 1,5 solo per il programma “Garanzia Giovani”. In Toscana ne arriveranno quasi 65 milioni per il biennio 2014-2015.

Ma la nota dolente è sempre la stessa: investiamo poco in settori chiave, soprattutto in tempi di stagnazione. Secondo uno studio dell’Isfol sui centri pubblici per l’impiego in Europa, nel nostro Paese s’investe solo lo 0,03% del Pil contro una media UE dello 0,25%. Meno di 500milioni l’anno, pari a quasi la metà di quanto spende persino la Spagna. E il risultato non può che essere di scarsa efficacia, ed efficienza, dei CPI: “Per gli strumenti che abbiamo facciamo fin troppo – commenta Alfonso- in media c’è un operatore ogni 3/400 persone. Inoltre, dal 2009, con l’attribuzione ai CPI della gestione della cassa integrazione in deroga, siamo diventati una specie di timbrificio. In certi giorni, in 2 ore di apertura, serviamo anche 90 numeri, e tutti per le certificazioni. Comprese quelle di riduzione dell’abbonamento ATAF”.

E nel caso in cui non dovessero rinnovare il contratto, a voi 55 precari? “Sarebbe uno sfacelo. Non solo per noi- conclude Romina- ma anche per il servizio pubblico che svolgiamo”.

 

 

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