Cementificio Testi: lieto fine per una difficile riconversione industriale

Collaborazione e mutuo rispetto fra impresa, istituzioni e lavoratori

Anche la Toscana vive ormai da tempo una lunga fase di deindustrializzazione, in sintonia per altro con quanto sta avvenendo in tutto il paese. Un tale declino purtroppo non sembra ancora essere giunto a conclusione. Negli anni se ne sono andati ormai tanti tasselli di quel mosaico che ha fatto dell’Italia un grande paese industriale. Molte di esse si sono rivelate, nella fase culminante, traumatiche e sanguinose soprattutto per i tanti lavoratori, che hanno perso il lavoro brutalmente e che in seguito hanno vissuto enormi difficoltà per ottenere una ricollocazione professionale. Esempi fra gli altri come quelli della Bekaert e della GKN, che hanno conquistato le prime pagine dei giornali nazionali, sono del tutto paradigmatiche da questo punto di vista.

Ha suscitato meno scalpore, invece, la crisi che ha affrontato lo storico cementificio situato al Passo dei Pecorai nelle vicinanze di Greve in Chianti e conosciuto con il nome del toponimo Testi. Crisi che ha condotto in tempi recenti alla chiusura dello stabilimento, per il quale si cerca ora un riuso acconcio sia per la popolazione residente sia per l’ambiente, ma non alcun tipo di ripresa produttiva. La produzione di cemento ha connotato la Toscana almeno fin dall’inizio del Novecento, senza raggiungere i picchi produttivi e di eccellenza di Piemonte e Lombardia, ma collocandosi comunque fra le regioni più attive nel settore. Il cementificio venne costruito nel lontano 1906; ha vissuto poi alcuni passaggi di meno fino alla stabilizzazione all’interno di uno dei principali gruppi cementieri nazionali, l’impresa Sacci. Fabbrica di medie dimensioni, è arrivata ad occupare, compreso l’indotto, anche più di 300 addetti nel corso della sua esistenza.

Per il grevigiano, area a scarsa vocazione industriale, ha costantemente rappresentato una presenza oltremodo significativa in termini di occupazione. Il cementificio fa parte integrante della memoria storica della comunità, all’interno della quale ha sempre costituito un attore protagonista. La ristrutturazione del mercato globale del cemento, la crisi del 2008 e infine i continui accorpamenti e fusioni fra gruppi, che caratterizzano il settore del cemento a livello nazionale, sono in sintesi le motivazioni di fondo che portano alla chiusura del cementificio. La storia di Testi nel nuovo secolo non è più soltanto una storia di produzione, con tutto quanto comporta nel senso più ampio del termine, ma anche di scatole cinesi.

Il capitalismo italiano nell’ambito del cemento si sostanzia in un continuo passaggio di mano di società e stabilimenti, in un frenetico scomporsi e ricomporsi del mosaico cementizio, che provoca il trasferimento dalla mattina alla sera di impianti e lavoratori in mani diverse. Acquisizioni accorpamenti fusioni diventano moneta corrente di un settore alla ricerca delle massime economie di scala in un’epoca sempre più avara di profitti, che vanno ricercati nelle pieghe dell’organizzazione dei gruppi operanti sul mercato italiano. Concentrazione, intesa in modo ancora più rigido di quanto non fosse accaduto in precedenza, diventa la parola d’ordine e allo stabilimento del Passo dei Pecorai non resta che il ruolo di agnello sacrificale sull’altare dell’efficienza. Finirà per essere stritolato da questa logica, nonostante un andamento economico non peggiore di tanti altri casi analoghi.

La crisi si è affacciata al Passo dei Pecorai nel 2012, quando per la prima volta per i 102 dipendenti venne prevista la cassa integrazione.

Il rapido precipitare della situazione spingeva verso un concordato preventivo per evitare il fallimento nel 2015. Alla Sacci non restava che disfarsi della fabbrica grevigiana; appare dunque tutto sommato ordinario in questa logica il passaggio di mano subito dallo stabilimento del Passo dei Pecorai in un contesto in cui acquisti e cessioni di imprese e conseguentemente di unità produttive, dalle condizioni economiche spesso altalenanti, erano all’ordine del giorno.

Nel luglio 2016 avveniva la cessione da parte di Sacci a Cementir Holding del gruppo Caltagirone, uno dei leader nazionali nel settore dell’edilizia e fra i maggiori produttori di cemento. Al momento del passaggio, a Testi lavoravano un centinaio di addetti. L’assorbimento della cementeria di Testi, insieme con altri impianti sparsi sulla penisola, contribuiva a far diventare Cementir il quarto produttore di cemento in Italia. Anche la nuova società – che prendeva il nome di CementirSacci – era destinata ad ulteriori passaggi. Di lì a poco, nel 2018, il cementificio di Testi passava a Italcementi, assumendo un nuovo nome, ItalSacci. In realtà il cementificio non rientrava nei piani della grande impresa bergamasca, nonostante i numerosi proclami di interesse strategico. Nel giro di un anno, già nell’aprile 2019, avveniva l’ennesima cessione, questa volta a Buzzi Unicem, acquisto però che preludeva alla definitiva chiusura: il gruppo casalese, con lo scopo di aumentare quote di mercato e privo di un piano industriale, puntava a togliere dal mercato un competitor, destinato evidentemente fin dall’inizio dell’operazione alla sparizione. Risulta significativo il fatto che Buzzi Unicem sia l’impresa che presenta il più alto volume di fatturato di cemento in Toscana. Massima razionalizzazione e realizzazione di economie di scala nella produzione, optando per il solo utilizzo ottimale degli impianti di maggiore capacità e tecnologicamente più moderni: la strategia dell’impresa piemontese condensatasi nella chiusura di Testi è facilmente sintetizzabile.

Se all’inizio la vendita poteva ingenerare speranze di rilancio, presto però la vera ragione dell’operazione veniva svelata. Cancellando lo storico cementificio chiantigiano, passato nel frattempo sotto la gestione di una società denominata Testicementi, l’influente gruppo cementiero piemontese si difendeva da eventuali incursioni di gruppi stranieri interessati ad investire nel mercato italiano e consolidava la propria leadership in Toscana. L’agonia della fabbrica di cemento di Greve è durata alcuni anni, durante i quali i dipendenti del cementificio hanno condotto con fierezza un’intensa lotta in difesa del proprio posto di lavoro. Per mesi i lavoratori della fabbrica hanno mantenuto attivo un presidio permanente ventiquattro ore al giorno allestito al Passo dei Pecorai al fine di sensibilizzare persone e istituzioni sulla propria condizione, puntando il dito anche sui gravi rischi ambientali, cui l’abbandono dello stabilimento avrebbe esposto l’intera comunità. Pur affiancata da tutte le forze politico-istituzionali e sindacali mobilitatesi in sua difesa, la battaglia per rimanere in vita per la fabbrica del Passo dei Pecorai aveva il sapore donchisciottesco di una guerra contro i mulini a vento. Ogni richiesta di tornare a produrre non poteva che cadere nel vuoto; le intenzioni della proprietà, del resto, si erano palesate fin da subito.

Nel marzo 2021 la fabbrica chiudeva per sempre; la pandemia in sostanza favorì la cessazione di ogni attività, permettendo la prosecuzione della cassa integrazione. Lo smantellamento dei materiali e, detto forse cinicamente ma purtroppo anche realisticamente, dei dipendenti è stato progressivo e inesorabile. Differentemente da molte altre crisi consimili, venne stretto un accordo accettabile per le parti: vennero previsti 14 ricollocamenti nelle aziende del gruppo in Toscana, incentivi economici all’esodo, copertura contributiva per quanti sceglievano il pensionamento, oltre a una serie di sostegni di vario genere per i lavoratori – alla fine ne erano rimasti più di 70 – con particolare attenzione per i soggetti più fragili. Se le condizioni per la chiusura dell’impianto, in ultima analisi, sono andate ampiamente incontro alle richieste dei lavoratori, ciò è stato dovuto in gran parte alla vasta e convinta mobilitazione opposta alla cessazione dell’attività dai vari soggetti mobilitati. Una volta chiusa la fabbrica, da parte della comunità grevigiana proveniva anche una ferma domanda di riqualificazione ambientale del sito.

Nel novembre 2021 veniva firmato con questo intento un protocollo d’intesa tra la Regione, i Comuni di Greve e San Casciano e l’impresa Buzzi Unicem, in cui si prevedeva l’introduzione di un sistema di economia circolare e di trasformazione ecologica in grado di aprire attività compatibili con il territorio, favorendo nuove prospettive di lavoro. In definitiva la fine dell’impresa industriale più importante della storia di Greve si risolveva in un compromesso fra gli attori coinvolti capaci di individuare un percorso di collaborazione e di mutuo rispetto in vista di una proficua riconversione del cementificio, costituendo in ultima analisi anche un possibile modello per le numerose crisi industriali che affliggono il paese e la regione.

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