Castigat ridendo mores: ora anche i comici hanno il loro martire

“Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o                                                                                                                                                                    parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! – Guardate piuttosto come ride.”       
                                                                                                                                                               F. M. Dostoevskij

 

Nazar Mohammed, in arte Khasha Zwan

Guarda come muore un comico, potenza della satira, coraggio della più sublime e ficcante arte del dissenso e del contropotere. Di qualsiasi risma, specie se quello bestiale ed antiumano dei fanatici islamici (qui si chiamano le cose col loro nome lasciando i vezzeggiativi ed i suffissi laccati a chi mette sempre avanti il politicamente corretto, ancorché falso, pure di fronte ai novissimi).

Confesso di essere rimasto molto colpito e sostanzialmente senza parole, poi condensate di getto in questo insipido pezzullo, davanti alle immagini del ratto con successiva uccisione, di Khasha Zwan, il comico afghano (pare non di professione) ammazzato dai talebani solo perché dedito alle perculate nei loro confronti. Una risata lo seppellirà parafrasando il ’68. E davanti alla sua reiterata vis ilare, pur stretto tra due energumeni barbuti con kalashnikov, conscio che quello verso il patibolo, sarebbe stato l’ultimo suo viaggio terreno.

A chi di dovere e di potere fa letteralmente orrore la propensione dissacrante, quella capacità letteraria, dialettica, mimica sola in grado di snudare il tiranno di turno ed esibirne la pochezza iconoclasta basata sulle armi e la paura, il proclama sbraitato e la retorica teocratica. Stare dunque oltremodo alla larga da coloro che annunciano di menare verità divine o teorie assolute (da qualsiasi esperienza essi vengano, sia religiosa che laica), ma diffidare anche minuziosamente di chi individua guru e santoni nella propria vita che motteggino al suo posto e financo di chi si prende troppo sul serio e non sa ridere di sé stesso. Che recenti studi neuroscientifici mettono in relazione diretta l’intelligenza individuale con la capacità di autocritica. 

Verbosità, ampollosità ed enfasi, unite al garrire di vetuste bandiere ed alla campagna luogocomunista, mascherano sempre il vuoto ideale, la pochezza della virtù, il nulla esemplare. Immaginiamo  che San Francesco abbia convinto non certo pontificando ma facendolo ghignare a crepapelle il Sultano di Babilonia a proposito del dialogo ecumenico. Negli ultimi atti del romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, nella battaglia anche fisica oltre che intellettuale tra l’illuminato Guglielmo da Baskerville e l’oscurantista Jorge da Burgos, cieco vegliardo autore dell’avvelenamento delle pagine del libro oggetto del casus belli, il secondo libro della Poetica di Aristotele, in una biblioteca ormai in fiamme, simbolo dell’eterna lotta tra luce e tenebre nel sapere dell’uomo, mentre divora letteralmente i capitoli del volume affinché nessuno abbia mai più a gustarne l’essenza, il vecchio monaco (nel rogo di quell’inferno in terra che ha provocato per evitare quello metafisico della Geenna) così urla: “ma se un giorno – e non più come eccezione plebea ma come ascesi del dotto, consegnata alla testimonianza indistruttibile della scrittura – si facesse accettabile e apparisse nobile, e liberale, e non più meccanica, l’arte dell’irrisione, se un giorno qualcuno potesse dire (ed essere ascoltato): io rido dell’Incarnazione…Allora non avremmo armi per arrestare quella bestemmia, perché essa chiamerebbe a raccolta le forze oscure della materia corporale, quelle che si affermano nel peto e nel rutto, e il rutto e il peto si arrogherebbero il diritto che è solo dello spirito, di spirare dove vuole!”. La risata è popolare e scaccia la paura, unica forma psicologica sotto cui il despota alligna.

Nel regno imbelle ed imbecille dei presunti reati di pensiero e parola, proprio perchè disabituati all’uso filologico delle stesse e delle costruzioni verbali, e misconoscendeone vieppiù l’etimo, si usa assai spesso a sproposito la definizione di “martire”. Orbene il “martire” è un “testimone” indifeso della propria identità (in questo caso non religiosa ma esistenziale e morale) fino alle estreme conseguenze (non esistono “martiri” armati perché l’utilizzo stesso degli strumenti di difesa presuppone appunto il tentativo ultimo di evitare il trapasso; men che meno “martiri” che si fanno esplodere al mercato falcidiando donne e bambini, perché i “martiri” si fanno uccidere e non ammazzano). Ecco perché in questo senso Khasha Zwan è un martire della comicità.

P.S.

Ah, poi ci sono quelli che “i talebani sono narcotrafficanti, non sono veri fedeli dell’Islam, lo ha scritto anche Saviano”. E fanno così pace semplice e frettolosa col loro semplice sistema binario. E qui  ci sarebbe molto da capire e davvero ben poco da ridere.

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