Reggio Emilia – Avevo sei o sette anni. La zia Elena mi recitava La vispa Teresa, la più nota poesia per bambini dell’Ottocento, Il prode Anselmo, di Giovanni Visconti Venosta, Il Marchesino Eufemio, d’alto saper perché d’alto lignaggio, del Belli. E mi cantava:
Tripoli, bel suol d’amore,
Ti giunga dolce questa mia canzon.
Sventoli il tricolore
Sulle tue torri al rombo del cannon.
E’ una canzone di propaganda scritta nel 1911, oltre un secolo fa, all’alba dell’impresa libica che consacrò la Gea della Garisenda, che la cantò avvolta solo da un tricolore sabaudo. Oggi suona vagamente sinistra al ricordo delle crudeltà commesse da Graziani nella repressione della resistenza libica. Le nostre nefandezze furono denunciate efficacemente da Angelo Del Boca, la cui opera di ricostruzione storica del colonialismo italiano ancor oggi stenta a farsi strada nell’insegnamento nelle scuole, così che è ancora diffuso il mito di “italiani brava gente”. Ma la dolce zia Elena nulla sapeva di tutto questo.
La guerra Italo-turca
1911: I liberali italiani, che nelle precedenti imprese africane di Eritrea ed Etiopia (concluse con il disastro di Adua) si erano divisi, in occasione della prospettata campagna nella Libia ottomana si dimostrarono a favore dell’intervento, seguendo il partito nazionalista fondato appena nel 1910 con l’appoggio dei futuristi. I giolittiani, con meno entusiasmo, appoggiarono anch’essi l’intervento. La Chiesa cattolica, nel suo insieme, appoggiò la guerra e numerosi vescovi diedero la loro benedizione alle truppe in partenza per il fronte. Gli stessi gesuiti, che in precedenza avevano duramente avversato le altre campagne coloniali italiane, in questa circostanza non si distinsero dal resto del clero. I giornali sono in genere favorevoli alla guerra: la Libia è piena di ricchezze minerarie, zolfo e fosfati, e ha grandi potenziali risorse agricole, il sottosuolo è pieno di acqua, ecc.! Così Gabriele D’Annunzio cantava la gioia della conquista “d’Oltremare”:
Ch’io sogni il greco sogno di Cirene,
sotto l’Arco del savio Imperatore
sgombro della barbarie e delle arene,
schiuso al Trionfo, mentre dalle prore
splende la pace in Tripoli latina,
recando i dromedari un sacro odore.…
Non è da meno Giovanni Pascoli, poeta della natura, del dolore e dei sentimenti più semplici e umani, noto anche per la sua fede socialista: “La grande proletaria si è mossa. (….) Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa, con frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei grandi antenati. Anche là è Roma”.
I socialisti sono spaccati: Bissolati, Bonomi e Labriola sono favorevoli all’impresa libica; contrari Turati e Gaetano Salvemini, per il quale la Libia non è che uno “scatolone di sabbia” intorno al quale si esprime propagandismo della peggior specie”. I socialisti riuniti a Bologna proclamano uno sciopero generale contro la guerra; l’adesione è però modesta.
La guerra
Il 28 settembre del 1911 l’ambasciatore italiano a Costantinopoli consegna l’ultimatum dell’Italia all’Impero Ottomano, che aveva il possesso di Tripolitania e Cirenaica. Il giorno dopo il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti dichiara guerra alla Turchia. Il corpo italiano di spedizione, al comando del tenente generale C. Caneva fu inizialmente di 34.000 uomini (100.000 nel 1912), sostenuto dal concorso della marina. Il 14 ottobre del 1911 Benito Mussolini, allora socialista, e il repubblicano Pietro Nenni vennero arrestati per la loro opposizione alla guerra.
In meno di dieci giorni Tobruk e Tripoli vengono occupate quasi senza incontrare resistenze. Il 23 ottobre lo scenario si capovolge: a Sciara Sciat, un’oasi ai margini di Tripoli, con un’insurrezione che unisce soldati turchi, truppe arabe, cavalieri berberi e abitanti dell’oasi; due compagnie di bersaglieri italiani furono accerchiate e, dopo la resa, annientate (secondo altre testimonianze le perdite furono 21 ufficiali e 482 uomini di truppa). Quando i bersaglieri italiani riconquistarono l’area scoprirono che quasi tutti i prigionieri erano stati trucidati; molti erano stati accecati, decapitati, bruciati vivi o tagliati a pezzi .
La reazione italiana è una rappresaglia disumana: inizia la caccia all’arabo, seguita da tre giorni di esecuzioni capitali e di deportazioni. Del Boca parla di almeno 4000 arabi uccisi e di 3425 deportati in venticinque penitenziari italiani; nelle carceri vivono con 600 grammi di pane e una gavetta di minestra, dormono ammassati sulla paglia e muoiono di colera. Nel giugno 1912, alle Tremiti, erano già deceduti 437 reclusi, il 31% del totale. A Ustica, nel solo 1911, ne morirono 69; a Gaeta e Ponza, nei primi sette mesi del 1912, altri 75. Nel corso del 1912 furono rimpatriati 917 libici, ma le deportazioni continuarono, con punte notevoli intorno al 1915. I giornalisti stranieri, indignati dai massacri, restituiscono la tessera al generale Caneva e abbandonano la Libia.
Il 18 dicembre 1913 il deputato socialista Filippo Turati denuncia l’uso della forca e i giudizi sommari contro la popolazione locale. Il 18 ottobre 1912, con la stipulazione del Trattato di Losanna, l’Impero Ottomano cede all’Italia a titolo di “protettorato”) la Tripolitania, la Cirenaica, mantenendo una sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane dei luoghi. Si apre così la lunga parentesi della dominazione italiana in Libia, terminata nel 1943 con la sconfitta, da parte degli inglesi, delle truppe italo tedesche comandate dal generale Rommler.
La resistenza libica
Le popolazioni arabe della Cirenaica e della Tripolitania non si rassegnarono al fatto compiuto e proseguirono le azioni di guerriglia. Le truppe, al comando dei generali Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani intrapresero una serie di operazioni per domare l’opposizione. Furono i Senussi ad animare la rivolta anti-italiana. Fra i loro capi spiccò poi Omar al-Mukhtār (1862-1931), detto “Il leone del deserto”.
Al-Mukhtār già dal 1924 aveva unificato sotto il suo comando gran parte della guerriglia anti-coloniale. La sua tattica consisteva in brevi attacchi a sorpresa, dai quali rapidamente poi si disimpegnava, favorito dalla conoscenza del territorio e dall’appoggio delle tribù locali; le piccole formazioni guidate da al-Mukhtār riuscivano a celarsi tra la popolazione.
La repressione
Dal 1930 al 1931 le forze italiane scatenarono un’ondata di terrore sulla popolazione indigena cirenaica. Il 31 luglio 1930 vennero bombardate con proiettili all’iprite le oasi di Taizerbo. Cufra, città santa per gli islamici, considerata da Graziani (diventato Ministro delle Colonie) “centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico” fu bombardata il 26 agosto; i ribelli furono inseguiti verso il confine con l’Egitto. Dopo una nuova insurrezione, il 20 gennaio 1931 la città è rioccupata dagli italiani; seguirono tre giorni di violenze ed atrocità impressionanti che provocarono la morte di circa 180-200 libici e innumerevoli altre vittime. Grande fu l’impressione nel mondo islamico.
Badoglio decise di coinvolgere nella repressione l’intera popolazione che forniva assistenza e ordinò a Graziani, vice governatore della Cirenaica, di allontanare la popolazione del Gebel Al Akhdar. Le popolazioni del deserto del Gebel furono quindi spostate negli appositi campi costruiti sulla costa. La costruzione dei campi suscitò polemiche in tutto il mondo arabo.
Graziani inoltre fece costruire una barriera di 270 chilometri di filo spinato lungo il confine egiziano tra il porto di Bardia e l’oasi di Giarabub, sede della confraternita senussita. L’obiettivo era di impedire l’arrivo di sostegni economici e militari attraverso il permeabile confine orientale. Ciò comportò l’espulsione di quasi 100.000 beduini metà della popolazione della Cirenaica. dai loro insediamenti, che furono assegnati a coloni italiani. In massima parte donne, bambini e anziani furono costretti ad una marcia forzata di oltre mille chilometri. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame; i ritardatari che non riuscivano a tenere il passo con la marcia venivano fucilati sul posto.
La propaganda del regime fascista dichiarava che i campi erano oasi di moderna civilizzazione gestite in modo igienico ed efficiente. Nella realtà i campi avevano condizioni sanitarie precarie: per i 33.000 reclusi nei campi di Soluche di Sidi Ahmed el-Magrun c’era un solo medico. Il tifo e altre malattie si diffusero rapidamente nei campi, anche perché i deportati erano fisicamente indeboliti dalle insufficienti razioni alimentari e dal lavoro forzato. La loro unica ricchezza, il bestiame, fu radicalmente distrutto; perirono il 90-95% degli ovini e l’80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica. Quando i campi vennero chiusi nel settembre 1933, erano morti 40.000 dei 100.000 internati totali.
La popolazione della Cirenaica, che in base al censimento turco del 1911 contava 198.300 abitanti, scese a 142.000 secondo i dati del censimento del 21 aprile 1931. Il quadro che emerge dalle incomplete cifre dei censimenti delle altre regioni è analogo. La scelta di deportare le popolazioni si rivelò decisiva nella sconfitta i ribelli .
A ʿOmar al-Mukhtār erano rimasti solo 700 uomini. Catturato dagli squadroni libici, fu portato a Bardi, poi trasferito a Bengasi e impiccato a Solùch il 16 settembre 1931. I suoi seguaci furono poi deportati in campi di concentramento nei quali la maggior parte morì per stenti e malattie.
Oggi, in Libia ʿOmar al-Mukhtār è considerato eroe nazionale e sul luogo dell’esecuzione, a Soluch , c’è un monumento che lo ricorda.
La repressione italiana in Tripolitania e in Cirenaica avvenne tramite i tribunali militari speciali; i processi avvenivano spesso in pubblico. Gli imputati indigeni venivano il più delle volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse erano quelle relative alla collaborazione offerta ai ribelli. Una pagina nera della nostra storia, e non l’unica.
Il fatto che che anche altri Stati non abbiano operato coi guanti nelle loro colonie, basti ricordare l’azione dei belgi nel Congo, non può giustificare il comportamento dell’Italia.
Foto: Omar al-Mukhtār. www. youtube.com