“La questione di dignità” dell’avvocato Luigi Li Gotti che, “come cittadino, non sopporta le menzogne delle autorità statali”, finisce in una denuncia alla Procura della Repubblica di Roma e innesca la miccia. La bomba scoppia poco dopo le 17 del 28 gennaio, con un video della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E’ lei stessa a dare la notizia di avere ricevuto un ‘avviso di garanzia’ per favoreggiamento e peculato in merito alla vicenda del generale libico Najem Osama Almasri, arrestato dalla Digos a Torino su mandato della Corte penale internazionale per aver commesso efferati crimini internazionali e liberato dopo solo due giorni per “cavilli formali”, poi rispedito su ordine del ministro Matteo Piantedosi in Libia con un aereo di Stato “per ragioni di sicurezza”.
La premier sceglie la modalità del video lanciato sui social per parlare alla nazione e con toni severi annuncia: “La notizia di oggi è questa, il procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi, lo stesso del fallimentare processo a Salvini per sequestro di persona, mi ha inviato un avviso di garanzia per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino libico Al Masri. L’avviso di garanzia è stato inviato anche ai ministri Nordio, Piantedosi e al sottosegretario Mantovano, presumo per una denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti”.
Il caso Al Masri agitava Governo e Parlamento da una settimana, le opposizioni erano in guerra per la vicenda “scandalosa e incredibile” del criminale-torturatore riportato a casa con tutti gli onori da un aereo Falcon dei servizi segreti italiani. E Meloni è rimasta a lungo in silenzio, rotto solo da una breve dichiarazione a margine della sua visita di Stato in Arabia Saudita, dove liquidava la faccenda scaricando sulla Corte d’Appello la responsabilità della scarcerazione del generale libico e attribuendo il merito al governo di averlo rimandato tempestivamente in patria in quanto “soggetto pericoloso”.
Poi il ‘presunto’ avviso di garanzia e la bomba di quel video con cui abilmente la Meloni fa una virata politica spostando il caso Almasri nell’ultimo capitolo – il più cruento – della guerra fra magistratura e politica, arrivata al suo diapason per la riforma Nordio sulla separazione delle carriere e le proteste delle toghe all’inaugurazione dell’anno giudiziario nelle Corti d’Appello. Non a caso il video si chiude con una summa del repertorio classico meloniano: “Non sono ricattabile – dice – non mi faccio intimidire. È possibile che per questo sia invisa a chi non vuole che l’Italia cambi e diventi migliore, ma anche e soprattutto per questo intendo andare avanti per la mia strada, senza paura”. Teoria del complotto e schiena dritta profusi via social e così Meloni passa in vantaggio: era accusata, ora accusa e scansa il merito di una complicatissima vicenda internazionale da chiarire relegandola nei confini italiani e facendone l’ennesimo attacco della magistratura al governo.
Ma quel video contiene inesattezze, a partire da un vistoso errore tecnico che segnalano i magistrati, per fare chiarezza sul “totale fraintendimento da parte di numerosi esponenti politici dell’attività svolta dalla procura di Roma”: non c’è nessun “avviso di garanzia nei confronti della presidente Meloni e dei ministri Nordio e Piantedosi”, spiega una nota dell’Associazione nazionale magistrati, ma “una comunicazione di iscrizione che è in sé un atto dovuto perché previsto dall’art. 6 comma 1 della legge costituzionale n. 1/89. La disposizione impone al procuratore della Repubblica, ricevuta la denuncia nei confronti di un ministro, ed omessa ogni indagine, di trasmettere, entro il termine di quindici giorni, gli atti al Tribunale dei ministri, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati affinché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati. Si tratta, dunque, di un atto dovuto”.
Non serve, niente ormai serve a fermare la valanga di indignazione di tutti i cantori meloniani, nelle istituzioni e fuori, a partire dai ministri, perfino il moderato Antonio Tajani parla di “proditorio attacco delle toghe per la separazione delle carriere”. E si gioca sulle parole, l’atto è “voluto”, non dovuto, il procuratore Lo Voi avrebbe potuto considerare ‘manifestamente infondato’ l’esposto di Li Gotti e archiviare subito la faccenda. Ma evidentemente c’era qualche estremo di fondatezza e comunque il procuratore di Roma si è limitato a trasferire tutto al Tribunale dei ministri, come si deve fare in questi casi.
E’ stato poco più di un passacarte ma, nella propaganda politica, è diventato un magistrato fra i combattenti più accaniti in guerra contro i politici. Non a caso la stessa Meloni nel video lo ricorda come “lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”. La presidente omette che il pm che iscrisse Salvini nel registro degli indagati non fu Lo Voi, ma il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Poi la procedura passò a Palermo, e Lo Voi chiese al Tribunale dei ministri di procedere. Non solo, del procuratore di Roma si sa che appartiene a Magistratura Indipendente, la corrente più moderata della magistratura, per cui si fa fatica a considerarlo una ‘toga rossa’. Come si fa fatica a considerare di sinistra l’avvocato Li Gotti, che iniziò giovanissimo la sua carriera politica nel Msi di Giorgio Almirante, poi passò ad Alleanza nazionale, pure con qualche incarico politico e solo quando l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro fondò Italia dei Valori, Li Gotti lasciò la destra ed ebbe un incarico di sottosegretario alla Giustizia nel Governo Prodi in quota Di Pietro. Ma tanto basta alla Meloni per considerarlo ‘di sinistra’ e prodiano, nonostante Prodi e Li Gotti non si parlino dal 2008, come hanno dichiarato entrambi.
Tant’è, dalla parte di governo e maggioranza il coro non si ferma, è unanime e assordante contro i magistrati: “La riforma Nordio non si tocca, non ci intimidiranno”. E la riforma va avanti spedita, incardinata subito al Senato per la sua seconda lettura, proprio il giorno dopo il video meloniano. E’ l’unico atto parlamentare segnalato, per il resto tutto si ferma, vengono annullate le informative dei ministri Nordio e Piantedosi sul caso Almasri e salta anche la seduta congiunta di Camera e Senato per l’elezione dei giudici costituzionali. Le opposizioni infuriate bloccano tutto, a parte la capigruppo alla Camera che conferma il rinvio sine die delle audizioni dei ministri. Anche al Senato si protesta abbandonando l’Aula.
Ma la protesta più incisiva si svolge nella sala stampa alla Camera dove sono stati invitati esponenti della rete ‘Refugees in Libya’, i rifugiati sotto protezione internazionale e richiedenti asilo. In una lettera inviata alla premier Giorgia Meloni, ai ministri Nordio e Piantedosi e al sottosegretario Mantovano, chiedono “la cessazione immediata di tutti gli accordi che consentono abusi nei confronti dei migranti” oltre a “un impegno pubblico per chiedere il rilascio di tutti coloro che sono ancora imprigionati nei centri di detenzione”. Il documento è stato letto dai portavoce, che denunciano di essere stati vittime delle torture di Almasri. Anche loro chiedono al governo italiano “una spiegazione ufficiale del perché” il generale “non sia stato consegnato alla Corte penale internazionale”.
Ma la stessa Corte penale internazionale aveva chiesto all’Italia di spiegare i motivi della scarcerazione di Almasri avvenuta “senza preavviso o consultazione” e ha specificato di avere inviato il mandato di arresto alle ambasciate d’Italia in Olanda, quindi il governo era stato avvertito. Così come, spiega stavolta il procuratore generale di Roma che ha disposto la scarcerazione di Almasri, il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale, è stato contattato il 20 gennaio e “non ha fatto pervenire nessuna richiesta”, per cui non ricorrevano le condizioni per la convalida.
Ma Meloni insiste: Almasri è stato “liberato non per scelta del governo, ma su disposizione della magistratura”. E anche su questo era arrivata la replica piccata dell’Associazione nazionale magistrati: “Il generale libico Njeem Osama Almasri è stato liberato lo scorso 21 gennaio per inerzia del ministro della Giustizia che avrebbe potuto e dovuto, per rispetto degli obblighi internazionali, chiederne la custodia cautelare”.
La vicenda resta controversa e con varie domande ancora senza risposta, come quella avanzata più volte dalla stessa presidente Meloni per cui “la Corte penale internazionale deve chiarire perché ci ha messo mesi a spiccare questo mandato di arresto quando Almasri aveva attraversato almeno tre Paesi europei”. In effetti il generale stava in giro per l’Europa dal 6 gennaio, fermato pure a Monaco e poi rilasciato.
Ma resta oscuro anche il perché il governo lo ha rispedito così velocemente nel suo Paese, eppure qualche risposta si può ipotizzare: la Libia è intoccabile per l’Italia sia per questioni economiche che ci vincolano al suo gas e al suo petrolio sia per questioni migratorie. In Libia vengono fermati centinaia di migliaia di migranti che finirebbero a Lampedusa. Come li fermino sembra non contare, anche se è noto il metodo Almasri fatto di torture, stupri, omicidi. Certo, Almasri non è una figura di second’ordine all’interno delle istituzioni libiche. È al vertice della Polizia giudiziaria, opera alle dirette dipendenze funzionali della magistratura, con l’Apparato di deterrenza per il contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata (Rada) che, tra le altre cose, gestisce la prigione di Mitiga. Un inferno, con centinaia di criminali e terroristi, che funziona pure da centro di detenzione per i migranti. E’ accertato che nel carcere di Mitiga sono state violentate almeno 22 persone, tra cui un bambino di 5 anni e uccisi 34 detenuti.
Ma sembra più forte la ragione di Stato. E, guarda caso, proprio il giorno dell’arresto di Almasri in Italia sono ripresi e aumentati esponenzialmente gli sbarchi a Lampedusa. E allora i motori del Falcon, pronti a rimpatriare il generale torturatore, hanno accelerato. Di lui ci restano solo l’elenco delle sue efferatezze stilato dalla Corte penale internazionale e le immagini della festa al suo rientro in Libia, acclamato come un eroe e portato in trionfo sotto la bandiera italiana del nostro Falcon appena atterrato.
In foto: Najem Osama Almasri