Una nuova tecnica, un progresso importante per quanto riguarda la carne coltivata, che permette di coltivare cellule staminali immortali del muscolo dei bovini, potrebbe consentire alla cosiddetta agricoltura cellulare di far compiere quel salto che solleverebbe il mondo dalla spada di Damocle della insostenibilità degli allevamenti intensivi tradizionali, riuscendo nello stesso momento a far fronte alle crescenti esigenze alimentari proteiche che sono ancora precluse a una buona parte dell’umanità.
La tecnica apparsa sulla rivista ACS Synthetic Biology rende le cellule staminali in grado di riprodursi centinaia di volte senza cadere nel processo inevitabile della senescenza ed è stata messa a punto nel Centro per l’agricoltura cellulare dell’americana Tuft University. La tecnica, per ora applicata solo alle staminali del muscolo di manzo, potrebbe trovare applicazione anche per le staminali del muscolo di polli e pesci.
La premessa dell’uso delle cellule staminali immortalizzate del muscolo dei bovini è racchiusa in alcune tappe necessarie affinché la carne coltivata abbia successo su larga scala, come si legge nell’abstract dell’articolo pubblicato sulla rivista ACS Synthetic Biology, “le cellule muscolari di specie rilevanti per il cibo devono essere espanse in vitro in modo rapido e affidabile per produrre milioni di tonnellate di biomassa all’anno. Per raggiungere questo obiettivo, le cellule geneticamente immortalizzate offrono benefici sostanziali rispetto alle cellule primarie”, riassumibili in: una rapida crescita, la fuga dalla senescenza cellulare e popolazioni cellulari di partenza coerenti per la produzione.
La tecnica in questione risolverebbe quindi qualche limite che ancora pesa, nonostante i progressi, sui meccanismi di agricoltura cellulare, da n lato la necessità di alti livelli di produttività del prodotto finito, dall’altro quello più volte richiamato della senescenza delle cellule, che, durante la replicazione, invecchiano con la conseguenza di non garantire più le stesse caratteristiche delle cellule iniziali. La tecnica sviluppata dal gruppo di ricerca americano, attraverso l’utilizzo, per la produzione di carne coltivata, di Cellule staminali muscolari bovine immortalizzate (iBSC), condurrebbe a ovviare sia a questo problema che a quello del rapido e controllato accrescimento, dal momento che si tratta di cellule che possono crescere rapidamente e dividersi centinaia di volte, potenzialmente senza fine. Le iBSC una volta moltiplicate vengono spinte a differenziarsi in cellule muscolari mature, vale a dire nel prodotto finale.
La nuova tecnica è stata commentata da Carlo Alberto Redi, presidente del Comitato Etica della Fondazione Umberto Veronesi, che all’ANSA ha detto che pur essendo “un importante progresso”, il vero limite alla diffusione della carne coltivata “non è tecnologico, ma culturale”.
Insomma, la vera barriera sarebbero elementi legati a paure sanitarie, all’accettazione sociale, al superamento del tabù che si esprime in un concetto molto diffuso ma fuorviante come la definizione di “carne sintetica”. La carne coltivata, come ribadito più volte dagli esperti, non è sintetica, ma un tipo di carne prodotta in laboratorio a partire da cellule animali. Le paure sanitarie? “Sono inventate – dice Redi – questi alimenti saranno controllati sempre in modo accurato allo stesso modo di come avviene con tutti gli alimenti che poi arrivano sul mercato”.
Un tema che non sarà facile eludere, quello della produzione della carne coltivata, in particolare in un pianeta in piena crisi ambientale come il nostro. Si stima che tra il 18 e il 20% dei gas serra siano dovuti alle emissioni dei miliardi di animali allevati in modo intensivo, a cui si deve aggiungere l’uso di farmaci e la distruzione di foreste per dare spazio ai pascoli. “La coltivazione della carne è una necessità inevitabile per la salvaguardia del pianeta”, dice ancora Redi, che richiama anche le questioni etiche legate alla macellazione. Tutti argomenti che tuttavia fino ad ora non sembrano scalfire la mancata accettazione sociale della carne coltivata, sostenuta anche dall’ostilità dei produttori tradizionali. Del resto, la questione è complessa anche vista dalla parte del lavoro, dal momento che nessuno nasconde la possibilità che produrre carne coltivata in larga scala possa mettere in crisi la capacità di produrre posti di lavoro da parte della filiera tradizionale, compensati solo in parte dalla richiesta di lavoro afferente alle nuove tecniche. Tuttavia, a fronte della possibilità di produrre riserve proteiche sane, controllate, più sostenibili e magari, anche grazie allo sviluppo di tecniche come quella sopra citata, meno costose, la scelta dovrà essere fatta. Scelta che diventerà inevitabilmente, valutati costi e benefici, di natura non solo sanitaria, etica ed economica, ma soprattutto politica.