Leggo su un articolo comparso sulla stampa, che il carcere di Sollicciano, così come si presenta oggi, è praticamente inutile, impresentabile, e che non può restare tale. Leggo anche che l’ennesimo recente suicidio qui avvenuto, quello del ventenne tunisino, è una sconfitta, un lutto per lo Stato.
Le affermazioni sopra riportate sono assolutamente condivisibili, ma appaiono oltremodo tardive. Da tempo e soprattutto negli ultimi anni, le condizioni detentive all’interno di Sollicciano presentano caratteristiche di inaccettabilità, dal punto di vista del rispetto dei principi umani e dei diritti costituzionali.
Le gravi carenze a livello strutturale, con conseguenze sul piano igienico-sanitario e quindi sulla qualità della vita delle persone detenute, sono ampiamente emerse in tutta la loro consistenza, con un peggioramento che è andato accentuandosi negli ultimi periodi. Altrettanto si può dire delle carenze di organico, della mancanza dei servizi previsti, dell’assenza di opportunità di percorsi e proposte in favore della rieducazione e del reinserimento in società dei detenuti. Perché solo adesso, quindi, si ammette tutto questo, quasi presentandolo come un problema ineluttabile, emerso solo nelle ultime ore e privo di cause da ricercare all’interno?
Da tempo, e maggiormente negli ultimi anni, quale cappellano ho segnalato in ogni modo tale grave situazione, nell’auspicio che qualcosa cambiasse e si muovesse. Nel frattempo, però, nulla è accaduto in tale direzione e l’unico cambiamento intervenuto è stato quello della figura del cappellano!
Si invoca la carenza di risorse, la catena delle responsabilità che giunge diretta al centro, alla capitale; ma tutto questo non può bastare, come pure la manifestazione di emozioni di sdegno, quando negli ultimi anni la situazione è peggiorata sempre più mostrando livelli di gravità crescente e, allo stesso tempo, non si è fatto poco per mettere mano alla risoluzione dei problemi, quasi di fatto accettandoli.
Comincio a credere che oltre le questioni tecniche e le procedure giuridiche, debba anche sempre rintracciarsi una motivazione legata al pensiero, al sentire comune, alla visione che nella società è presente intorno al tema del carcere. Tale visione, spesso non manifesta, viene però di tanto in tanto a galla, trapelando tra le righe. Alla richiesta dei detenuti di acqua calda dai rubinetti delle celle si potrebbe benissimo sentir rispondere che questa è una pretesa inappropriata, più consona ad un albergo che ad un carcere. È vero, il carcere non è un albergo, ma l’acqua calda è prevista dall’art. 7 del regolamento penitenziario e, oltre a questo, il carattere afflittivo non risulta comparire tra gli aspetti della pena delineati in Costituzione. Vogliamo distinguere tra carcere ed albergo? Bene, allora non si chiamino le celle “locali di pernottamento”, così come sono tecnicamente indicate nel regolamento, dal momento che queste sono piccole stanze buie dove si trascorre quasi tutta la giornata, in barba alle otto ore che sarebbero previste fuori da essa!
Le parole cominciano a sprecarsi e, purtroppo, con esse si sta perdendo anche il senso del dramma più vero che si sta consumando nelle nostre carceri. La speranza di un cambiamento, culturale e fattuale, deve rimanere, ma ogni giorno accadono cose che la mettono a dura prova!
Dobbiamo attendere altri morti, oltre agli oltre 80 che si sono contati negli ultimi due anni, perché lo sdegno facilmente rappresentato negli organi di stampa si traduca in vere azioni di giustizia capaci di restituire dignità ad un luogo, quale il carcere, che deve essere espressione della civiltà e democrazia di uno Stato? Speriamo che la vita, quella vera, torni ad animare gli istituti senza il prezzo di nuovo sangue.
Don Vincenzo Russo è Responsabile della Diocesi per il carcere, già cappellano di Sollicciano