Carcere (Sicuro) è legge. Ora servono nuovi modelli di garantismo

Populismo penale e opinione pubblica, miscela che prefigura un regime
Il Presidente incaricato Giorgia Meloni legge la lista dei Ministri, al termine del colloquio con il Presidente Sergio Mattarella.(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Il decreto Carcere (Sicuro) è ormai alle spalle. Talmente irrituale che sarà ricordato nel tempo. In un decreto che avrebbe dovuto occuparsi di migliorare le condizioni di vita, e dell’esecuzione di pena, negli istituti penitenziari è stata inserita la novella (linguaggio giuridico) del vecchio reato di “peculato per distrazione”: un reato già esistente, assorbito parzialmente nell’abuso d’ufficio, e ora riattualizzato come reato proprio nella parte della punibilità della condotta tipica, la distrazione. E solo per evitare grane con l’Unione europea: la materia, infatti, è oggetto di un obbligo di incriminazione derivante dal diritto UE, che vincola il legislatore nazionale.

L’abrogazione, in un altro decreto, del reato di abuso d’ufficio non andava giù né a Bruxelles, né a Mattarella, che di firmare la promulgazione del decreto proprio non ci sentiva. Ora, tutto a posto, Mattarella ha firmato nell’ultimo giorno utile la promulgazione della legge di conversione concernente l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Rimarrà nella storia della decretazione d’urgenza l’approvazione di un nuovo delitto in un decreto dedicato all’esecuzione di pena in carcere. Un paradosso. 

Il ministro della Giustizia Nordio esce comunque vittorioso dalla prova politica. Se fossero vere le notizie che vedono Nordio dirigersi a breve verso la Corte Costituzionale, altrettanto vere sarebbero le voci che interpretano, con un significato particolare, il nervosismo politico “garantista” di Forza Italia nel proporre per via Arenula il suo uomo di punta sulla giustizia: Francesco Paolo Sisto, attuale viceministro alla Giustizia.

Ecco spiegato in due parole il decreto Carcere. Di nuovo non c’è niente, tranne la facoltà per i direttori d’istituto di incrementare le telefonate dei detenuti. La “facoltà”. Il resto è un “vedremo e chissà”, decreti ministeriali da scrivere e commissari per l’edilizia carceraria da finanziare nel conto. Il percorso era stato inaugurato con il decreto Caivano, che ha ingolfato gli Istituti Penali Minorili (IMP). Il testimone è stato poi consegnato ai decreti Giustizia e Carcere (Sicuro). Manca ancora all’appello il decreto Sicurezza, di cui è prevista la conversione a settembre e che contiene ben tredici nuovi reati conditi dall’inasprimento del sistema delle aggravanti e dell’innalzamento delle pene per reati già esistenti. Il Governo Meloni ha così dato, di tutta evidenza, consistenza legislativa alla dottrina del populismo penale. 

Vediamo velocemente alcune caratteristiche di questa dottrina. 

L’uso populista del diritto e della giustizia penale ha configurato la nascita di un regime. Le origini, tuttavia, sono lontane nel tempo, il Governo Meloni è soltanto l’ultimo capitolo di una lunga storia che perimetra le politiche sulla giustizia degli ultimi trent’anni: dai Cinque Stelle ai governi Berlusconi passando da tecnici (con rare eccezioni) e Pd di governo (con altrettanto rare eccezioni). Il populismo penale, infatti, può essere sia di destra, sia di sinistra. Progressista o conservatore. Cambiano solo gli indirizzi e gli obiettivi. In Italia è dunque nato parecchi anni fa. Il Governo Meloni gli ha solo confezionato una regolazione normativa d’insieme, una vera teoria. 

La relazione tra populismo penale e opinione pubblica è particolare. Si potrebbe definire di complicità. Fatto sta che senza il primo la seconda non esisterebbe, e viceversa. In un regime populista anche i suicidi in carcere appaiono fisiologici al sistema, “inevitabili”. Nell’opinione pubblica il codice è retributivo. Esempio: se Tizio non avesse compiuto il reato, non sarebbe finito in carcere e non si sarebbe suicidato. Colpa sua. Chi chiede che sia fatta luce (meglio: informazione pubblica) sulla tragedia dei suicidi in carcere è un illuso. In ogni caso, non servirebbe. L’opinione pubblica oggi è compatta nel condannare il crimine, non la disumanità carceraria. 

In un regime di populismo penale, tutto è concesso e niente è ottenuto con gli strumenti di iniziativa politica d’opposizione. È un regime, mica noccioline. Da questa considerazione, scaturisce l’evidenza del fallimento “a priori” (in senso kantiano) di qualsiasi iniziativa per ridurre il sovraffollamento carcerario con provvedimenti di clemenza (amnistia, indulto) o liberazione anticipata speciale. Un dialogo tra sordi. Le principali responsabilità ricadono però nel campo dei proponenti la clemenza. Il populismo fa soltanto il suo lavoro.

La resistenza al populismo penale passa attraverso un rimodellamento delle pratiche di opposizione. Un rimodellamento necessario. Altrimenti il rischio di fare la figura di “utili idioti” agli scopi del regime è molto alto. Il fallimento generazionale del cosiddetto garantismo costituzionale è sotto gli occhi di tutti. La diffusione delle ossessioni populiste, la demagogia securitaria e il clima di costante emergenza hanno ottenuto l’avallo di gran parte della cultura penalistica. La politica ha accolto e ringraziato. 

Luigi Ferrajoli, in un suo recente lavoro, ha concentrato l’attenzione proprio sulla nascita di nuovi modelli di garantismo. “Una rifondazione del garantismo penale non può avvenire senza il superamento di questo duplice isolamento della scienza giuridica – della filosofia del diritto penale e della sociologia giuridica – peraltro incompatibili con il costituzionalismo rigido delle nostre democrazie” (L. Ferrajoli, Giustizia e Politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, 2024, Laterza). È scontato, ma ciononostante ancora necessario, far notare che la crisi del garantismo si perfeziona nel diritto penitenziario. Nell’esecuzione penale e non nel processo. 

Nelle aule di Giurisprudenza un tempo si studiava la Carta costituzionale di Luigi XVIII del 1814. Era definita carta ottriata, da “octroyé”, cioè concessa dal sovrano. Lo Statuto Albertino del 1848 era figlio della Carta del 1814. I sudditi non possiedono diritti, poiché la loro titolarità è frutto della benevolenza del sovrano, non una loro prerogativa. In compendio, formulazione del populismo penale: niente si ottiene con gli strumenti parlamentari, o di lotta popolare, ma tutto si concede “benevolmente”, quando fa comodo, quando è il caso. Il Sovrano decide. In controluce, l’abuso della decretazione d’urgenza. 

La storia ha già raccontato quello che la cronaca politica ci sta descrivendo. 

In foto Giorgia Meloni

Total
0
Condivisioni
Prec.
Fame e malnutrizione, il mondo soffre, l’Africa di più

Fame e malnutrizione, il mondo soffre, l’Africa di più

Le agenzie dell'Onu invocano più sostegno economico

Succ.
Palio: per l’Assunta un drappellone di ispirazione futurista

Palio: per l’Assunta un drappellone di ispirazione futurista

Il “Cencio” di Rik, grafico e illustratore di fama internazionale

You May Also Like
Total
0
Condividi