Carcere: la giustizia riparativa antidoto alla società della punizione

Il saggio di Massimo Lensi analizza il fallimento del sistema della rieducazione

La pena, la disciplina. Il sistema di punizione, quello di premialità. Le carceri, lo status dei detenuti. L’aumento dei reati, la rincorsa all’aumento e alla penalizzazione delle sanzioni. In un momento in cui non solo tutto ciò che è dissenso, pacifico o violento, si trasforma in reato, mentre i reati compiuti effettivamente decrescono e viceversa le carceri si riempiono, forse è il momento di chiederci perché il grande sistema punitivo-rieducativo ha fallito e come fare a porre rimedio. A cosa? Da un lato, a una dilagante e pervasiva criminalizzazione di tutto ciò che non rientra in un sistema di valori definito dal potere centrale (più semplicemente, disciplina) e dall’altro alla necessità di trovare un’alternativa efficace nel limitare il danno che comportamenti violenti, aggressivi, criminali appunto, producono nelle vittime e possano arrivare ad erodere i principi di libertà individuale e collettiva, fisica e mentale, su cui si basa la laicità dello stato occidentale. O si pensava che si basasse.

Una sfida cui Massimo Lensi, anni di militanza radicale e di focus sugli istituti penitenziari alle spalle , fondatore insieme a Grazia Galli di un attivissimo gruppo denominato Progetto Firenze, già autore di saggi e opere sia sul tema che in generale sulle tematiche della contemporaneità, cerca di dare qualche spunto di risposta col suo ultimo saggio, “Delitti & Castighi”, sottotitolo: “Per una nuova funzione della pena”, per i tipi di Thedotcompany Edizioni.

“Come vorrei che si impostasse una possibile nuova visione della pena? – dice Lensi – secondo una mia auspicata riformulazione dell’art. 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere all’efficacia della giustizia e all’utilità del condannato, della vittima del reato e della società“. Questa è la sintesi della mia riflessione. La pena deve avere due gambe, l’efficacia e l’utilità”.

Ed ecco cosa significa in concreto: “Efficacia perché la pena deve andare nella direzione di un contenimento dei fenomeni criminosi, sebbene non possiamo ignorare la lezione di Foucault, ovvero che la creazione della delinquenza non è altro che il codice disciplinare che ci si inventa, vedi i 24 nuovi reati inventati dal decreto sicurezza che non servono che a disciplinare la società. Non a reprimere, che è un concetto diverso; qui si parla di codice disciplinare, un concetto che sta funzionando alla grande. Si sta parlando di una trasformazione interiore, che induce l’individuo a sentirsi in dovere di obbedire a questo codice di disciplina, senza ovviamente discuterlo. Questa è un delle cose peggiori che può accadere in una democrazia: l’omicidio del dissenso, il dissenso che muore perché ha paura di esprimersi”. Aggiungiamo noi, perché ha paura di esprimersi andando contro o al di là del codice disciplinare che il sistema introietta nell’individuo.

In questa mutata temperie, tornando all’art. 27 della Costituzione così come scritto dai padri costituenti, con la sottolineatura della “funzione rieducativa della pena“, si accende una luce che fa considerare in modo diverso rispetto all’usuale, il tandem punizione-rieducazione. Commenta Lensi: “La natura della funzione rieducativa è disciplinare, per cui non si fa altro che andare nella direzione di una società disciplinare. Si tratta delle due facce della stessa medaglia”.

Dunque, secondo quanto spiega Lensi, “la pena non dovrebbe essere retributiva (l’art. 27 Cost. come formulato non esplicita la componente retributiva della pena, la rieducazione e il divieto di trattamenti inumani sono però considerati in dottrina i limiti stessi della punizione), però ad oggi il principio della rieducazione si è trasformato nei fatti in una forma occulta di punizione. Il sistema della rieducazione, infatti, è fallito. E nel vuoto è riaffiorata la componente retributiva. Quando è stata introdotta nel nostro ordinamento nel ’75, faceva parte di un vasto movimento che in Italia ha visto Margara e il suo gruppo al primo posto, ma che si è rivelato un gigantesco abbaglio ovunque, dalla Francia agli Stati del Nord Europa, all’Italia. Cosa si intende per rieducazione, risocializzazione, ravvedimento, dentro questa teoria “bislacca” che vuole penetrare nell’anima del reo? La rieducazione non attiene al corpo fisico del reo, come si faceva nei secoli passati, in cui le pene erano sostanzialmente corporali, frustate, tratti di corda, la ruota ecc. Ora si vuole l’anima: la rieducazione vuole penetrare nell’anima del condannato e modificargliela. Ma che giustificazione ha se nel nostro ordinamento la pena consiste soltanto nella limitazione della libertà personale, e qui si mette il punto? E allora, perché, Stato, vuoi modificarmi l’anima e rieducarmi a una vita civile? Ho sbagliato, ne sono cosciente, ma non voglio essere rieducato”. Un diritto assoluto, a decidere per sé di sé. Ma chi lo contesta?

“Se il sistema aggancia con le leggi in vigore tutte le alternative alla carcerazione e la premialità in funzione della buona condotta sancita da operatori che non esistono, epperciò da un sistema di disciplina che se fai il “bravo” e ti comporti bene, per premio di buona condotta ti meriti il fine settimana a casa. Questo è l’aspetto peggiore della disciplinarizzazione di una persona. Ma noi viviamo in uno Stato laico, non in uno Stato etico. L’autodeterminazione è l’aspetto principale nell’educazione di una persona. In termini concreti, devo essere io individuo a decidere, se voglio, di fare un corso all’interno del carcere in cui sono ristretto, ma la scelta non deve essere condizionata alla premialità, non ci deve essere buona condotta e il premio per “aver fatto il bravo”. Tanto più che adesso, con l’avvento del reato di resistenza anche passiva, il 415 bis messo anche a chi si ribella in carcere, e si sta parlando di ribellioni anche passive e non violente, ad esempio il rifiuto del cibo, o quello di eseguire gli ordini anche manifestamente illegittimi, si “becca” da due a sei anni. E’ evidente che esiste una teoria di fondo, di fronte a cui è folle trattare ancora della rieducazione carceraria come di una soluzione alla crisi del sistema. Perché la rieducazione è il puntello di questo sistema: non a caso Nordio, Stellari e Del Mastro non fanno altro che parlare di rieducazione. Si parla di “comunità rieducanti”; rieducanti nel senso, seguendo il ragionamento fin qui portato avanti, di cambiamento della mente delle persone. All’opposto si trova il principio liberale dell’autodeterminazione: decido io cosa pensare e allo stesso tempo sono responsabile delle mie azioni”.

La pena dunque, per raggiungere la sua funzione, deve essere utile ed efficace. “Sono queste le due gambe su cui si deve muovere la giustizia per essere reale – continua Lensi – un percorso che altri Paesi hanno già intrapreso, con esperienze della cosiddetta giustizia riparativa. Si tratta di un accordo raggiunto attraverso un libero scambio tra il reo e la vittima del reato, ed è utile a tutti, e alla società, in quanto costruisce un’ipotesi di uscita dal concetto di punizione per arrivare a un concetto di riparazione del danno. Che senso ha rinchiudere delle persone in un carcere a far niente o a far finta di essere rieducati? A chi è utile? Alla vendetta, alla punizione come vendetta? Allora togliamo gli orpelli e mettiamo all’art. 27 Cost. “Chi sbaglia paga”. Questo ha un senso”.

Cosa vuol dire dunque che la pena dev’essere efficace? “Vuol dire che chirurgicamente non crea la delinquenza, ma risolve alcuni aspetti che la convivenza sociale richiede. Non va a colpire a casaccio, creando la categoria del delinquente (tutti coloro che non obbediscono agli ordini in carcere son delinquenti, tutti i ragazzi che bloccano il traffico sono delinquenti…) , questa non è efficacia, è punizionismo. L’efficacia è vedere dove esiste il pericolo, individuarlo e con un bisturi portarlo via. La pena è utile, in questo senso, utile a chi è stato condannato, a chi ha subito un danno, e alla società che ne trae beneficio, senza dover pagare economicamente una struttura pletorica e fatiscente, risolvendo, nel contempo, l’ipotesi della recidività. Chi ha riparato un danno e ha iniziato il percorso, è stato riscontrato in altri Paesi, è meno soggetto a recidiva”.

Perché in Italia questa logica non viene applicata? Per tanti motivi, spiega Lensi, ” il primo se vogliamo è escatologico, è l’aspetto del law and order. L’altro aspetto è che si porta via lavoro agli avvocati. Chi ripara, lo fa attraverso un giudice mediatore che vigila sull’accordo. E’ previsto un albo dei mediatori che ciascuna Regione dovrebbe avere, mentre in Italia sono solo due le regioni che lo hanno, non la Toscana. Se l’accordo viene approvato dal giudice e firmato, la pena viene sospesa o addirittura a fine percorso di riparazione viene annullata. Si tratta di un accordo fra privati visionato dal giudice”.

Ma quali sono i reati riparabili? “In Italia tutti. In Francia hanno aperto la strada della giustizia riparativa con il reato di violenza sessuale. In Italia non esistono rati non riparabili. In Francia hanno aperto con un blocco, hanno stilato una lista di reati riparabili, inserendovi reati particolarmente gravi, per fare una sorta di esperimento e vedere se il meccanismo funzionava. Ed ha funzionato”.

A qualcuno viene il dubbio se la giustizia riparativa possa attagliarsi anche al caso di malattia mentale del reo.” Come si stabilisce che un disagio psichico sia alla base di un comportamento penalmente punibile? Qual è la relazione? – dice Lensi – Nel nostro ordinamento, l’incapacità di intendere e volere impedisce di essere ristretto in carcere, ma conduce nelle Rems, un altro istituto disciplinante. Anche in questo caso, la logica di fondo è la correzione della mente. Ma siamo sicuri che il disagio mentale deve per forza abolire l’autodeterminazione di una persona? Oppure meglio l’imputabilità piena anche dell’incapace di intendere e di volere per poterlo inserire in quei percorsi riparativi in cui c’è anche il controllo sanitario, ma non è funzionale a creare il nuovo soggetto . Gli errori si fanno, ma non si fanno in nome della volontà di violare. Si fanno per mille motivi, in cui alla base c’è un mistero di fondo. Ma la giustizia non deve entrare in questo terreno, perché se entra in questo terreno, diventa Stato Etico”, il contrario dello stato laico, liberale, che considera l’individuo per ciò che è, e ciò che fa. In questo senso, l’incapacità di intendere e volere, non deve sospendere la pena o annullarla, deve esserci imputabilità piena.

“Agire sull’essere umano, sulla sua mente, è biopolitica – dice Lensi – ed è il pericolo maggiore a cui una società può andare incontro; il carcere è un sistema metaforico di controllo disciplinare. La repressione è cosa diversa dalla disciplina; la repressione è quella degli anni ’70 in cui c’era una reattività, una dinamica. Ad ora non è più così, non ci si trova più in un’alternativa fra repressione e reazione, ma fra disciplina e accettazione passiva , l’annullamento dell’individuo e la creazione di una nuova società, un nuovo modello che guarda al Leviatano. Ed è per questo che è saggio avere paura, tanto più che l stesso meccanismo si rileva anche sul fronte internazionale.”. Ma se questo è, il dubbio finale è pesante: nonostante l’evidente fallimento della giustizia punitiva, il meccanismo della giustizia riparativa non passa, perché serve che il sistema non funzioni. Cui bono? E’ questo malfunzionamento il sostegno, il pilastro e anche l’alibi alla logica della rieducazione. Vale a dire, di cambiare l’anima con premialità e punizioni. Come in qualsiasi scuola di addestramento cani.

Il nuovo saggio di Massimo Lensi verrà presentato venerdì 18 ottobre nella Sala Ketty La Rocca alle Murate, alle 17.30, a Firenze

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