Oh bella, mi si sbertuccia pure dalle colonne di questo sito manco fossi un seguace di Osho qualsiasi, prestato per caso alla Croce e alla pace (dei sensi) di qualche antico cenobio orientale. Una sorta di Savonarola tirato su a pappe decotte dell’istituto religioso invece che spassarmela al drive-in con le ragazze. Di più, una sorta di trombone assiso su una colonna, come il siriano Simeone lo Stilita, l’anacoreta che guardava il mondo di lassù all’insegna del “non ti curar di lor ma guarda e passa”. Tal Ghino di Punta, misterioso alias sotto cui si cela vilmente un altro detrattore tutto botti e goduria a comando, inverte il senso primo e ultimo del mio “elogio del silenzio”.
E’ infatti proprio in nome e per conto dell’amore per l’uomo e delle sue naturali e divine inclinazioni che il sottoscritto in passato si è scagliato contro le degenerazioni del rito, anche quello collettivo della festa, della musica e dell’arte in generale. Homo sum…e conseguente frase del commediografo latino Publio Terenzio Afro. Non certo per disprezzo della socialità umana e delle sue variegate forme aggregative alte. Da una parte la festa è rito, nasce liturgica e legata ai grandi e ciclici avvenimenti naturali, delle stagioni e della vita dell’uomo, ivi compresa la morte. Per questo nelle culture ancestrali, ma non solo, l’accompagnamento del trapassato da parte dei vivi è una sorta di metafora festosa dell’ultimo viaggio. Dall’altra, lo stato di festa è innanzitutto una disposizione e una condizione interiore prima ancora che una costrizione di circostanza. Infatti il significato della festa e della sua eccezionalità è totalmente smarrito in nome di un perenne stato di intontimento godereccio nemmeno epicureo (in quel caso il benessere aveva una propria consapevolezza ontologica). Ma per conto di vuoti meccanismi di massa eterodiretti dal mercato consumistico e dallo Stato per perpetuare i propri elementi fondanti. In alcuni casi anche positivi per carità. Cosa ci sia oggi da celebrare e salutare, ribadiamo, è di impossibile individuazione. E tra la coerenza interiore e il rimbambimento superiore, preferiamo la prima.
E’ in parte vero: forse la formazione del sottoscritto ha influito nelle sue convinzioni attuali. Ma è stato l’allontanamento dalle parrocchie (di ogni tipo) più che la loro frequentazione, per l’incontro con altre credenze ed esperienze ai confini del mondo, che gli hanno fatto cambiare radicalmente idea, a favore del silenzio e dell’essenza del rito, trasversale alle tradizioni più umane. C’è un solo Capodanno ben fisso nella mente e nell’animo di chi vi scrive: tra il 2000 e il 2001 a Gerusalemme. Chiuso nel S.Sepolcro, assieme a francescani, armeni, copti e ortodossi siriaci, prima che, attorno alle 3.30, il palestinese musulmano di turno mi prendesse a sacrosante pedate nel sedere per cacciarmi dall’Edicola e richiudere la Rotonda dell’Anastasi fino al giorno seguente. Allora, mi pare, ho compreso l’ecumenicità del rito.
N.B.
Per tutto questo e altro è con viva e vibrante soddisfazione che invito gli eventuali lettori di questa scaramuccia dialettica di fine anno a tacere, meditare, evitare petardi e rumore e rintanarsi in casa, accompagnati dagli affetti più cari, e alla visione del film di Philip Groning “Il grande silenzio” che narra, per quattro silenziosissime ore, la vita dei religiosi presso il monastero della Grande Chartreuse sulle Alpi francesi.