Firenze – A Cango è andato in scena l’eterno “certame” (il classicismo serve per rafforzare l’universalità conflitto) fra il corpo e lo spirito. Fra la riluttanza e il rifiuto di una natura fragile e paurosa e la forza della volontà che prevale anche a costo dell’annichilimento.
“I’ll do, I’ll do, I’ll do”, presentato dalla compagnia di Cesena Dewell Dell nell’ambito della rassegna “la Democrazia del corpo”2024, ideata e diretta da Virgilio Sieni è un modello paradigmatico di come un’idea, un’immagine, un concetto, un’ispirazione basata su eventi e tradizione storiche, contadine e letterarie ad un tempo, possano trasformarsi in una parabola profonda e inquietante .
La trasmissione di significati ed emozioni su piani diversi rispetto a quelli che sono alla base dell’idea originaria è la conferma che lo spettacolo è riuscito e rimane nella coscienza degli spettatori. La forza della rassegna di Sieni sta proprio nel condurre senza sosta una conversazione con il pubblico che sempre più l’apprezza e la segue come dimostra l’affluenza agli spettacoli.
Quello di Dewey Dell è partito dall’immagine della strega e del suo farsi mediatrice con le forze oscure, demoniache, ma anche con le più benigne divinità ctonie che soprintendono alla fertilità. La scena creata da Demetrio Castellucci è quella di un cerchio che racchiude uno spazio grigio e oscuro, una specie di palude ma forse anche una porta di ingresso verso gli inferi . Al centro si svolge il rito, il sabba demoniaco, della strega, una sibilla che non senza grande sofferenza progressivamente si abbandona alla possessione del corpo e quindi allo spossessamento dell’anima che sale verso il cielo, accettando di scendere nelle profondità degli inferi.
In mano tiene due falci simboli del culto contadino dal quale proviene la strega e nello stesso tempo lo strumento che definisce l’azione implacabile della morte. Il suono iniziale è fatto di colpi meccanici, non uniformi, come il battere dei denti. Il corpo della strega-sacerdotessa respinge il demone con tutte le sue forze espresse con lo scuotimento della testa, un gesto che è la base della coreografia di Teodora Castellucci (con la collaborazione di Agata Castellucci) che è anche l’interprete del solo. Il corpo perde la battaglia contro la volontà che cede alle forze soprannaturali.
Non bastano movimenti esasperati né altri gesti apotropaici per fermare il momento della possessione che avviene nella forma di un grande panno nero che l’avvolge e la inghiotte. Questo annientamento è però anche la premessa di un’ascesa.
Lo spettatore ha potuto approfondire il concetto della pièce coreografica direttamente dai protagonisti in un incontro che si è svolto a conclusione della performance di Teodora. La razionalizzazione del momento creativo tuttavia nulla ha aggiunto all’esperienza fisica ed emotiva della contraddizione che si annida dentro di noi.
Foto di John Nguyen