Firenze – Il Candide di Leonard Bernstein ha debuttato ieri sera al Teatro dell’Opera di Firenze (repliche il 29 maggio e 3 giugno ore 20.30 e domenica 31 maggio alle 15.30). Tratto dall’omonima favola-romanzo di Voltaire, l’opera è un libero riadattamento che Bernstein portò sulle scene nel 1956 riproponendolo poi in successive edizioni fino all’ultima del 1974. Il regista Francesco Micheli ha virato la vicenda di questo Forrest Gump settecentesco secondo i moduli del musical americano. Interpretazione lecita visto che il compositore è anche l’autore del celeberrimo West Side Story. Con questa impostazione il grande palcoscenico del teatro è stato trasformato in un’ imponente magazzino di spedizioni, un po’ come quelli di Amazon, (ma nelle intenzione del regista pare trattarsi di fabbrica di cloni), con decine di figuranti impegnati a smistare scatole pronte per la spedizione.
La favola filosofica di Voltaire, che peraltro figura nell’opera come voce narrante, si rivolge con sarcasmo e ironia alla confutazione della dottrina di Gottfried Wilhelm von Leibniz il quale teorizzava un ottimismo panbuonista (sulla scena il personaggio è Pangloss), secondo il quale, qualunque fossero gli eventi e per quanto tragici risultassero, il mondo procedeva per evoluzioni spontanee di stadi ciascuno dei quali rappresentava “il migliore dei mondi possibili”. Da qui la convinzione che tutto fosse assolutamente giusto e ispirato al bene. In questa edizione fiorentina, la favola del filosofo Pangloss e del suo discepolo Candido, ambientata in un angosciante universo di luce al neon con operai-soldati, si snoda secondo i dettami di uno spettacolo di intrattenimento contemporaneo: grandi masse – coro e figuranti- che si agitano con frenesia, l’immancabile eccentrico transgendre, (Cacambo), gli ammiccamenti al sesso. Un meccanismo che funziona a dovere ed ha un suo momento di liricità nel duetto del primo atto tra Candide e Cunegonde. Tutto ciò a patto che si accetti la spoliazione – nel testo e nell’opera – del suo significato filosofico e storico.
La vicenda, già di per sé labirintica appare in questo contesto come uno strano gioco dell’assurdo nel quale allo spettatore rimangono solo la bizzarria delle trovate registiche, i manichini, le bambole gonfiabili, le scatole semoventi che trasportano i protagonisti da una parte all’altra della scena. Gli interpreti fanno il loro dovere con maestria professionale. Ancora una volta le voci sembrano perdersi più verso la grande torre scenica piuttosto che verso la platea. Un effetto che il direttore John Axelrod non tenta di mitigare alleggerendo l’orchestra ma che invece calca con fare marziale e dinamiche decisamente votate alla grandeur. Apprezzabili le colorature di voce della protagonista femminile Laura Claycomb ( Cunegonde), e rispettabile l’esile Candide di Keith Jameson. La voce narrante, interpretata con bravura ed autorevolezza scenica da Lella Costa – si esibisce per tutto il tempo indossando un paio di pattini a rotelle – dovrebbe essere, nelle intenzioni dell’autore, la voce dello stesso filosofo Voltaire il quale, a seguito della patente dimostrazione della inattendibilità di Pangloss, consiglia, con familiare buon senso, di rimanere con i piedi per terra e di salvarsi dalle sciagure che il mondo “coltivando il proprio orticello”.
Un messaggio difficile da capire in questo bombardamento di colori , coreografie, movimenti di masse, che sembrano risultare in ultimo, fine a se stesse.