Firenze – Camminando sull’acqua, il film di Gianmarco D’Agostino, racconta l’alluvione del 1966 a Firenze attraverso gli occhi e la macchina da presa di Beppe Fantacci (1905-1998). L’imprenditore nato a Signa e vissuto a lungo in America, che quella maledetta mattina del 4 novembre scese da Bellosguardo dove abitava, e insieme al figlio Paolo, allora undicenne, filmò le immagini-shock di quell’evento.
Il film, che verrà presentato in anteprima il 4 novembre (ore 21) al Teatro della Compagnia, tuttavia è molto più di questo: è un racconto corale delle memorie dei figli di quella generazione che perse tutto nel disastro che colpì Firenze. E’ anche il racconto di come la città è stata ricostruita grazie a tante piccole storie sconosciute.
Gianmarco D’Agostino, regista e produttore trentasettenne (Advaita film), ha al suo attivo “molta gavetta”, dice lui, ma anche esperienze importanti. Come la realizzazione dei contenuti multimediali dell’Opera del Duomo e quattro documentari d’arte in collaborazione con Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani.
D’Agostino, come nasce la scintilla iniziale del film?
Ho voluto incontrare Paolo Fantacci, il figlio di Beppe, perché sapevo dell’esistenza di questo documentario, uno dei pochi a colori sull’alluvione. Quando ho visto le immagini sono stato colpito dalla loro bellezza, ma soprattutto dall’uso che Beppe Fantacci ne fece: portò in America questo documento straziante e in poco tempo raccolse (insieme a Emilio Pucci e Enzo Tayar, presidente Anibo) risorse per erogare prestiti a 316 imprese alluvionate, salvandole dal disastro. Lo chiamarono fondo Alfa. Non potevo non raccontare questa storia su Firenze e sui fiorentini.
“Camminando sull’acqua”, perché questo titolo quasi..sacrale?
Cercavo di dare un senso alla capacità che Firenze ha avuto di risollevarsi da difficoltà che parevano insuperabili, grazie all’unione di tutti: aiuti stranieri, cittadini che si davano una mano, imprenditori che ricominciavano, banche.
E’ un film che non ha un vero e proprio “io narrante”…
Sì infatti, c’è un filo narrativo: Paolo Fantacci che racconta alla figlia la storia del nonno. Ma c’è tanto materiale d’archivio, e tante interviste: sono i figli che narrano le storie dei loro padri. Antonina Bargellini, figlia del sindaco; i fratelli Tayar; i fratelli Fantacci. Ma c’è anche la vedova Pucci e Ferruccio Ferragamo. E poi i figli degli artigiani, coloro che hanno ricostruito grazie alle risorse del fondo Alfa e gestiscono le aziende di oggi. E’ anche un confronto fra generazioni molto diverse. Mi ha colpito un aspetto che lega le testimonianze che ho raccolto. Pur avendo avuto dei padri forti, a volte ingombranti, trapela sempre un grande orgoglio quando i figli li ricordano. Non possono dimenticare il loro esempio di coraggio, generosità, lealtà. Traspare nel film anche un senso di comunità dei fiorentini, che certo oggi si è persa.
Mentre giravo le dico francamente che mi ha emozionato questo senso di unione per ricostruire un bene comune di cui parlano molti intervistati. Tutte le storie che amo raccontare hanno questa cifra di fondo: sono piccole, ma hanno un senso più alto. Così sento che il mio lavoro serve a qualcosa. Certo, un film non cambia la storia, ma amo pensare che queste testimonianze servano a diffondere una voglia di rinascita nel tessuto produttivo della nostra città, messo in ginocchio da una crisi che non è una catastrofe come allora, eppure toglie le forze giorno dopo giorno.