Agricoltura e difesa del territorio, un binomio ormai inscindibile, come è stato ben dimostrato dagli ultimi eventi. Nell’area mediterranea in particolare è degna di un focus particolare, in quanto portatrice di un’ars agricola che si è sviluppata per millenni, la penisola italiana e in questa la realtà toscana, che rappresenta a livello internazionale sinonimo di agricoltura sostenibile, forte non solo del suo paesaggio modellato dall’attività umana, ma anche del suo alto numero di aziende biologiche, fra i più alti in Europa.
A mettere in evidenza la stretta dipendenza fra agricoltura intesa in buona sostanza come gestione (corretta) del suolo e difesa del territorio , è intervenuta la lectio magistralis che il professor Marcello Pagliai, dell’ Accademia dei Georgofili, ha tenuto nella sede della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, nel corso dell’incontro avvenuto martedì 25 luglio promosso dalla Fondazione e dal suo presidente, l’on. Valdo Spini, insieme alla Cia Agricoltori Italiani della Toscana, presente il suo presidente Valentino Berni, dal trasparente titolo: “Agricoltura e difesa del territorio”.
“I cambiamenti climatici e le relative conseguenze ambientali hanno reso il tema della difesa del suolo una priorità per l’Italia di cui è l’ora di prendere atto – ha detto il presidente Valdo Spini, ex Ministro dell’Ambiente – una funzione cruciale e strategica nella difesa del suolo la assume l’attività dell’uomo che si esplica attraverso la cura dei boschi da un lato e l’agricoltura dall’altro. È quindi estremamente significativo che il tema della difesa del suolo venga affrontato da un’Associazione professionale di agricoltori – la CIA – insieme ad una Fondazione di cultura politica come quella intitolata ai fratelli Rosselli e che la prolusione sia stata affidata ad un prestigioso studioso dell’Accademia dei Georgofili. Un’iniziativa che vogliamo continuativa proprio per le emergenze che abbiamo recentemente vissuto anche in Emilia Romagna e nella stessa Toscana”.
La lectio magistralis del professor Marcello Pagliai parte dall’assunto , che potrebbe sembrare banale ma che in realtà (e purtroppo) non è affatto scontato, che l’agricoltura è l’ultimo baluardo per il presidio del territorio. Del resto, l’elenco pur sommario delle tragedie che nell’ultimo quarto di secolo hanno accompagnato la storia del Paese, rende evidente quanto la corretta o meno gestione del suolo, sia la causa principale della degenerazione dei fenomeni naturali, addirittura al di là del cambiamento climatico, impattante ovviamente e disastroso, ma ancora più grave in quanto si abbatte su un suolo impoverito, frammentato, impermeabilizzato che ne aumenta e rilancia la potenza distruttiva. Così, la tragedia di Sarno nel 1998, di Giampilieri nel 2009, delle Marche nel 2022, di Ischia nello stesso anno, della Romagna in queste settimane del luglio 2023, hanno secondo quanto spiegato dal professor Pagliai, un sottile ma inesorabile filo rosso che le unisce: la scomparsa della cultura contadina e l’abbandono a se stesse di ampie aree di territorio.
“Nelle aree collinari e montane, con la scomparsa della cultura contadina, sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, vaste aree sono state abbandonate e con esse sono cessate quelle opere di paziente e faticosa cura del territorio, messe in atto dagli agricoltori, a cominciare proprio dalla regimentazione idrica, di cui erano esempio gli “sciacqui”, trasversali alle linee di massima pendenza che proprio gli agricoltori con tanto di zappa si apprestavano a fare dopo la semina del grano. Ciò consentiva alle acque di scendere a valle in modo controllato, soprattutto contenendo l’erosione e quindi limitando il trasporto di materiale solido, incluso quel fango di cui si parla solo in occasione dei disastri cui purtroppo assistiamo”.
Un abbandono sociale ed economico, oltre che fisico, evidente nei casi concreti, come ad esempio, come ricorda Pagliai, il caso di Ischia, dove “dagli anni ’60 del secolo scorso si sono abbandonati e perduti oltre 2mila chilometri di terrazzamenti coltivati, come accadde a Giampilieri”. Il punto tuttavia rimane un interrogativo, anche stavolta apparentemente banale, che è semplicemente: di cosa parliamo, quando si parla di suolo?
Rifacendosi alle definizioni UE e FAO, spiega il professor Pagliai, “il suolo è una risorsa essenzialmente non rinnovabile e un sistema molto dinamico, che svolge numerose funzioni e fornisce servizi fondamentali per le attività umane e la sopravvivenza degli ecosistemi. Fra le varie funzioni cui assolve, produzione di cibo e biomasse, regolazione della qualità del clima e dell’aria attraverso ad esempio il sequestro di CO2, regolazione delle acque superficiali, qualità dell’acqua di falda, salute umana, biodiversità” e tanto altro.
Ma il suolo si può anche definire in cifre. Ad esempio, da esso dipende oltre il 95% della produzione di cibo, come ricorda Pagliai, mentre nel mondo si perde suolo al ritmo di 500 ettari ogni mezz’ora per le cause più diverse, dall’erosione all’inquinamento alla cementificazione e a molti altri motivi. Inoltre, “oltre il 33% dei suoli mondiali è affetto da forti limitazioni per la produzione di alimenti e nei paesi industrializzati le terre dedicate all’agricoltura sono ormai limitatissime”. Non solo. Per formare 1 cm di suolo fertile, ricorda il professore, necessitano dai 100 ai 1000 anni a seconda del clima, del substrato litologico, cioè della roccia sottostante al suolo, dell’impatto antropico e via di questo passo. Ancora, nel suolo si trova oltre al 90% della biodiversità del pianeta in termini di organismi viventi.
Chi è che minaccia il suolo? In buona sostanza, sono da un lato le attività antropiche e dall’altro i cambiamenti climatici cui stiamo assistendo. Per quanto riguarda le attività antropiche, l’intensificazione dell’uso dei suoli agrari ha portato al frequente superamento della soglia della sostenibilità ambientale. Inoltre, le ampie superfici destinate allo sviluppo urbano e industriale hanno provocato un alto tasso di impermeabilizzazione, come ricorda Pagliai parlando di consumo di suolo. “Diverse aree sono state inquinate e contaminate in nome del progresso e de benessere dell’uomo”. La triade letale per il suolo è inquinamento, contaminazione e salinizzazione. Senza contare i cambiamenti climatici, legati anch’essi, almeno in parte, alle attività antropiche.
L’impatto dei cambiamenti climatici si misura ad esempio “nel mutamento accentuato della variabilità delle precipitazioni con l’alternarsi di stagioni piovose e stagioni secche – spiega Pagliai – senza contare il fatto che le precipitazioni tendono a intensificarsi e a distribuirsi su un numero minore di giorni”, mentre sono in aumento anche le serie siccitose con risultati diversi da zona a zona.
Il colpo di maglio dei cambiamenti climatici sul suolo si evidenzia anche dall’incremento dell’aggressività delle piogge, che, sottolinea il professore, si calcola abbia subito un incremento, nel giro di vent’anni, pari a dieci volte. Sulle modalità da utilizzare come strumento per fronteggiare a un tempo il cambiamento climatico e il processo di degradazione del suolo, lo studioso sottolinea la “necessità immediata di un Piano quadro nazionale finalizzato sia a recuperare e accumulare l’acqua piovana attraverso la creazione di serbatoi e vasche di espansione e laminazione delle piene, sia a recuperare la funzionalità dei numerosi piccoli e medi invasi attualmente esistenti, i “vecchi” laghetti collinari realizzati negli anni ‘6’-‘70”.
Per quanto riguarda il degrado del suolo, i dati italiani sono inquietanti. “Il 22,3% dei suoli del Paese sono a rischio desertificazione, con un 41,1% che riguarda l’area Centro e Sud Italia – mette in luce l’accademico – la degradazione del suolo avvenuta negli ultimi 40 anni ha provocato una diminuzione di circa il 30% della capacità di ritenzione idrica dei suoli italiani , con un relativo accorciamento dei tempi di ritorno degli eventi meteorici in grado di provocare eventi calamitosi”.
La degradazione dei suoli ha una spia importante, vale a dire la drastica riduzione del contenuto di sostanza organica. “La soglia ritenuta indispensabile per assicurare una buona fertilità del suolo è quella del 2% di sostanza organica – continua Pagliai – in molti suoli il contenuto di sostanza organica è ormai sotto l’1%”. Ma perché è così importante che il suolo mantenga la sua percentuale di sostanza organica, a cosa serve? “La sostanza organica è una delle chiavi di volta per la conservazione del suolo – dice il professore – dal momento che migliora il sistema dei pori e i movimenti dell’acqua, la ritenzione idrica, la stabilità degli aggregati, la nutrizione delle piante, mentre facilita le lavorazioni del terreno e la preparazione del letto di semina”.
Se il problema della degradazione del suolo sta diventando “il” problema per quanto riguarda l’agricoltura e tutto ciò che vi si aggancia, la risposta non può che essere lo sviluppo sostenibile, che si configura nelle voci sostenibilità ambientale, economica, sociale. L‘aspetto economico-sociale, come spiega Pagliai, si configura in un dato: “ Su cento euro di prodotti di filiera acquistati al supermercato, all’agricoltore rimangono (forse) dai 60-70 centesimi”. Ed è questo, oltre alla mancanza di servizi nelle zone vocate all’agricoltura ma abbandonate a volte da decenni e oltre, le cosiddette “zone interne”, a porre il problema della reale consistenza e concretezza del “ritorno alla terra” spesso presente sui media. “Ci sono molti giovani attratti dalle prospettive del mondo agricolo e silvo-pastorale – dice Pagliai – ma devono essere aiutati con politiche di sostegno che favoriscano la collaborazione pubblico-privato con una programmazione che guardi al lungo termine. Occorre inoltre investire sulla formazione. Senza questo sostegno, anche chi volesse intraprendere la strada dell’agricoltura vien dissuaso dal fatto che, da solo, non ce la può fare”.
Eppure, sarebbe decisivo un impegno della politica su questo versante, che permetta di pensare al futuro come a una sfida non ancora persa. Infatti, ciò che illustra il professor Pagliai circa la possibilità di fronteggiare il dissesto del Paese e la degradazione dei suoli, con la conseguente ricaduta sul clima e sull’intera salute del pianeta, si riaggancia alle pratiche virtuose della sostenibilità agricola, come la fertilizzazione organica, il sovescio, la rotazione delle colture, la riduzione per quanto possibile delle aree abbandonate unitamente alla corretta gestione delle aree ripariali, l’utilizzo di coltre di copertura, ovvero l’inerbimento. Ma anche l’utilizzo di varietà idonee alla vocazione dell’ambiente, la protezione integrale delle colture, l’utilizzo delle lavorazioni superficiali. Inoltre, fanno parte delle pratiche virtuose, “le lavorazioni secondo le curve di livello, i terrazzamenti, l’impianto e manutenzione di impianti irrigui che riducono in modo significativo i volumi di adacquamento massimizzando l’efficienza idrica, oltre alla realizzazione o manutenzione di canali e fossi permanenti per la gestione delle acque superficiali”. Tutte azioni ben conosciute nel secolo scorso e frutto di una preziosa eredità di coltivazione contadina che si snoda nei secoli, o meglio nei millenni, pensando alla raffinata maestrìa dei contadini dell’antichità classica, in particolare romana. Dov’è dunque l’innovazione?
“L’innovazione sta nella possibilità di utilizzare nuove tecnologie, da quella sensoristica, ai sistemi digitali, all’agricoltura di precisone solo per citare alcuni strumenti, per mettere in atto cn maggiore efficacia sistemi che magari hanno millenni di vita”, conclude il professor Pagliai.
In foto il professor Marcello Pagliai