Nel corso degli ultimi due anni, anche noi italiani abbiamo conosciuto una nuova e sconcertante realtà: non sono solo operai, insegnanti, casalinghe o dipendenti pubblici che, attraverso il sudato strumento dello sciopero, scendono in piazza a rivendicare i propri diritti. Ora ci sono anche i calciatori che, sebbene non si armino di megafono e cartelli mastodontici, rivendicano oggi la tutela della loro professione, minacciando di far saltare la prima, sospirata, domenica di calcio della nuova stagione.
In questo caso, gli acerrimi nemici sono le società sportive che puntano a mantenere quei privilegi che tutt’ora hanno sui loro strapagati “dipendenti”. Sia chiaro, lungi da me è il voler scrivere l’ennesimo articolo sulle continue lagne dei professionisti del pallone, ma voglio più che altro mettere in luce quelli che sono i motivi della protesta e dove si potrebbe finire se questa diatriba sportiva dovesse andare per le lunghe. Ricapitolando in breve la faccenda, qualche giorno fa, per mezzo del proprio presidente Damiano Tommasi (ex calciatore professionista), l’AIC (Associazione Italiana Calciatori) ha fatto sapere che gli accordi conclusi con la delegazione della Lega di A sul contratto collettivo di categoria, lo scorso dicembre, non sono stati rispettati dall’Assemblea delle società, lamentando, inoltre, che l’Italia è l’unico paese nel quale non esistono ancora oggi precise norme contrattuali per tutti i tesserati. Non soldi, quindi, ma diritti, come da mesi ribadiscono i rappresentanti ai microfoni dei principali media del nostro paese.
Qualora le società non firmassero l’accordo, essi si vedrebbero, quindi, impossibilitati ad iniziare un nuovo campionato. Ma quali sono i punti sui quali le varie parti non si trovano in accordo? I principali sono 2: il cosiddetto “mobbing” ed il trasferimento obbligatorio. Il primo punto riguarda gli allenamenti dei giocatori con la prima squadra. L’AIC rivendica il diritto del singolo di allenarsi in condizioni di assoluta parità con gli altri compagni di rosa e che, consentire allenamenti separati rispetto al gruppo della prima squadra significherebbe favorire situazione di discriminazione e di mobbing. Spesso, le società di calcio, utilizzano queste forme di “emarginazione” per costringere i propri calciatori a rinnovare un contratto in scadenza o accettare un trasferimento non gradito. Una specie di ricatto insomma.
L’AIC, inoltre, ribadisce che un tesserato sotto contratto non può essere obbligato ad accettare un trasferimento; la legge 91 prevede, infatti, che la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso dello stesso. L’associazione si pone dunque a tutela soprattutto dei giocatori che hanno un minore potere contrattuale, cercando di limitare in qualche modo lo strapotere delle società. Richieste che, a primo impatto, sembrano lecite ma sappiamo tutti che nelle firme su contratti così importanti compaiono sempre quelle clausoline sulle quali si accende poi una battaglia senza esclusione di colpi.
Nel rinnovo dell’accordo, ci sono infatti punti che riguardano la flessibilità della retribuzione, le multe e sanzioni disciplinari, le attività extra calcistiche dei tesserati. E’ giusto che gli interessati la mettano sul piano dell’etico (come a loro conviene) ma bisogna anche dire come stanno le cose. Quello che auspico, e penso auspicano tutti gli appassionati di questo sport, è che si trovi al più presto una conclusione alla questione, non tanto per vedere la partita in tv la domenica, ma per mettere fine a questa mini-farsa che come al solito imbarazza il nostro calcio di fronte al resto del mondo. Di cose da imbarazzarci, dopotutto, già ne abbiamo a sufficienza.