Bonafini, una penna in cielo

“Direttore” sgangherato ma vero, con Bonafini muore un giornalismo a volte schierato ma mai leccaculo. Il contrario del modello imperante

Avrebbe appeso al muro con la sua penna sanguigna intinta in quell’irriproducibile slang padano i fini parolai che spesso nascondono il vuoto. Sfregiato le loro flaccide chiappe (conformate alla poltrona su cui siedono aggrappati) con la B di Bonafini. Magari, tacciato scemenze e retoriche varie con una sana teoria di saracche, più altisonanti che volgari. Umberto Bonafini è stato l’ultimo dei giornalisti più o meno liberi perché i tempi e i geni glielo permettevano.

I tempi erano quelli delle macchine da scrivere e le battaglie potevano ancora essere ideali; coi geni della schiena dritta invece ci si nasce. E chi mena vanto di avere la spina dorsale allineata come un fuso, rischia di nascondere in realtà uno scheletro perpendicolare a quella posizione netta che i più, specie giornalisti, amano assumere di questi tempi: a 90. Non amava leziosismi e ghirigori, di quelli che ammantano i pezzi degli sciatti dicitori che hanno imparato la lezione (del padrone di turno) a memoria e non presentano mai (vigliacco, mai e poi mai) uno straccio non tanto di idea originale ma nemmeno di sintesi personale. E restano eterni cerchiobottisti, aspettando alla finestra gli eventi ciclici della padronanza. Come i pastori la transumanza. Greggi a pecorina. Per avere la certezza di essere saltati, armi e bagagli, sul carro (funebre) del vincitore. Fino a brezze diverse, naturalmente. Banderuole, non bandiere.

Contro i bla-bla-bla multimediali e le equivicinanze della categoria, il direttore si è sempre scagliato, tuonando dai cieli della sua esperienza e della sua bonaria irruenza (non è contraddittorio). E non era un merito anche quello di italianizzare le parole straniere, inglesismi e francesismi in primis, che hanno colonizzato il nostro vocabolario (incredibilmente più antico del loro, anzi suo nonno nel caso francese)? Le checche puriste e schifiltose arricciavano un poco il naso, storcevano la boccuccia d’oro. Ma quanto avremmo avuto da imparare. Trattare i potenti come uomini della strada (da cui prevalentemente provengono); lasciar esprimere anche chi non si accoda al pensiero omologato, sul giornale che dirigi. Palestra di confronto, perché no anche di scontro, cioè di democrazia e di circolazione di neuroni. L’uno viene dal carattere, l’altro dall’animo liberale.

Sì perché le oggigiorno gioiose macchine da manipolazione e/o censura che rispondono al nome di giornali, tv e (checché se ne dica anche web-journal) non fanno dell’ospitalità al parere contrario la propria precipuità. E poi? Poi era pieno di difetti perché amava la vita. E, per parafrasare e malamente S.Agostino, anche questo è un merito. Non faceva parte della schiera di  quaquaraquà sacerdotali che usano la parola, se vuoi etimologicamente cristallina, per ingannare, sedurre, evangelizzare o bofonchiano insensatamente per seminare vento e fare “ammuina”, dividere e imperare; semmai era un druido da plenilunio. Verace, schietto e netto. Capace di cambiare opinione senza vergognarsene o definirne a tutti i costi una irreprensibile rintracciabilità; ora le melodie drammatiche che tanto amava le ascolta da vicino. E chissà in che dialetto si rivolge agli improbabili abitatori o colleghi dell’aldilà

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