Birdman: il “supereroe” che vinse agli Oscar

Brillante riflessione metarecitativa sugli attori e le loro idiosincrasie. Meraviglioso Keaton

birdmanposterCosa sta succedendo ai premi Oscar? Non che le statuette consegnate in passato ai migliori film e registi non fossero sempre meritate, sia chiaro. Ma l’impressione è che gli anni Dieci di questo nuovo millennio abbiano segnato una vera svolta autoriale nel trend dell’Academy Award. E così, dopo i trionfi sbalorditivi del muto The Artist, dell’intenso Argo, del fantascientifico Gravity e dell’incatenante 12 anni schiavo, la cerimonia dell’edizione 2015 ha dato lustro al raffinato blabla movie di Alejandro González Iñárritu.

Chiariamo subito una cosa: Birdman è un film bellissimo. Non solo per la scelta di girare (o meglio, montare) un unico piano sequenza di quasi 2 ore, o per la bravura di un cast a dir poco in stato di grazia. Il regista di Babel e 21 grammi è riuscito nel non facile intento di compiere una brillante riflessione metarecitativa che, alternando ribalta e retroscena senza soluzione di continuità, racconta impietosamente la categoria degli attori e tutte le loro più ricorrenti idiosincrasie.

Rappresentativo in tal senso è il ruolo del protagonista Riggan Thompson, mai affrancatosi dal ricordo della trilogia cinematografica che l’aveva reso celebre negli anni 90 in cui impersonava un supereroe oscuro dalla voce roca. E non è certo un caso se a prestare volto e corpo a questo artista in cerca di riscatto critico è proprio Michael Keaton che, con i due Batman di Tim Burton, raggiunse una ventina d’anni fa quel successo planetario che avrebbe allungato una pesante ombra sulla visibilità di tutte le sue interpretazioni successive. Non sono da meno però gli altri componenti di questo nevrotico carosello attoriale: Edward Norton imprevedibile e sessuomane; Emma Stone figlia ex tossica e rancorosa; persino la critica teatrale spietata e frustrata di Lindsay Duncan. Solo per citarne alcuni.

Mai sottotitolo fu più appropriato: Birdman è davvero una tesi sulla – a nostro avviso però tutt’altro che imprevedibile – virtù dell’ignoranza, che fa da filo conduttore a tutti i dialoghi dei suoi piccoli personaggi (persino l’opera di Carver che ispira la pièce del film, What We Talk About When We Talk About Love, sembra voler sottolineare l’inadeguatezza di ogni tentativo di razionalizzazione).

E dai suoi riferimenti cineteatrali di partenza, in primis Rumori fuori scena di Peter Bogdanovich e Radio America di Robert Altman, il film di González Iñárritu si allontana virtuosamente grazie a una vena sperimentale che lo rende un piccolo, fluviale e densissimo capolavoro di scrittura, regia e intenzioni.

Da vedere, rivedere, sminuzzare, studiare e applaudire a lungo, anche dopo l’inchino finale degli attori dal palco/schermo.

Ad avercene sempre, di film così che vincono gli Oscar…

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