Pistoia – Pubblichiamo il discorso che il sindaco di Pistoia Samuele Bertinelli ha tenuto in occasione della ricorrenza del 25 aprile Festa della Liberazione.
È importante che le celebrazioni per la Liberazione abbiano il sapore, gioioso e allegro, di una festa popolare, perché una grande festa di popolo fu quella che spontaneamente, nei giorni successivi al 25 aprile 1945, invase Milano e tutta l’Italia, come a cancellare d’un tratto, nel fragore dei canti e di una rinnovata, manifesta, vitalità, la paura, la violenza e l’oppressione di oltre vent’anni.
Il 25 aprile segna la sconfitta del Fascismo. Una sconfitta che non fu soltanto militare, ma anche morale, civile e politica: il riscatto democratico di un’Italia che trovò prima di tutto in se stessa la forza per ribellarsi alla dittatura e, per questa via, riconquistò la libertà e la democrazia.
La Resistenza permise al nostro Paese di emendarsi dai tragici errori e dagli inevitabili, conseguenti orrori dei quali si rese purtroppo complice. Non possiamo, infatti, né dobbiamo – mai – dimenticare che l’Italia fascista concorse a perpetrare terribili crimini contro l’unanimità, che ebbero come vittime persone inermi, adulti e bambini.
«E venne la notte – ha scritto Primo Levi – , e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero mai dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani, né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile».
A pochi passi da qui, all’inizio del viale Arcadia, si trova una targa, inaugurata esattamente dieci anni fa, «in memoria di tutti i bambini uccisi nei campi di sterminio nazisti». Le rose bianche che la abbracciano ricordano i venti bambini ebrei vittime della aberrazione di esperimenti medici nel campo di Auschwitz-Birkenau.
Cadono le parole, inevitabilmente si ammutolisce nel tentativo di dar nome all’abiezione di un sistema disumano e delirante, immerso in un odio primordiale, cieco e indicibile, in grado di infliggere inenarrabile sofferenza e morte perfino ai più indifesi tra i più deboli, i bambini. Eppure, oggi ancora, lontani più di settanta anni da quella tragedia, siamo chiamati a lottare affinché i più piccoli siano protetti dal dolore e dalla guerra. Ricordiamo tutti l’indignazione, lo sdegno e la sofferenza che ci procurò l’immagine del piccolo Aylan riverso sulla battigia di una spiaggia turca, dove suo padre cercava di portare in salvo lui e suo fratello, finalmente lontani dalla guerra che sta ancora martoriando la città nella quale erano nati, Kobane. Ed è questo purtroppo soltanto un esempio, che ci appare più vicino perché illuminato da una vasta notorietà internazionale e, per questa ragione, sembra interrogarci con più urgenza ed immediatezza, interpellando, qui ed ora, le nostre responsabilità su quel che siamo davvero capaci di fare affinché l’infanzia di centinaia di migliaia di bimbi sia protetta e difesa.
Il metro di misura più efficace per valutare la qualità di una società autenticamente democratica è la sua capacità di garantire i diritti di tutti, e particolarmente di coloro che hanno meno strumenti – o che non ne hanno alcuno – per poterli far valere: che siano bambini indifesi; condannati che scontano la loro pena; minoranze ancora afflitte dallo stigma di un qualche stupido pregiudizio radicato nella storia e nella paura collettiva.
In questo stesso parco, la nostra Piazza della Resistenza, nel gennaio del 2012, in occasione delle celebrazioni per la giornata della Memoria, fu inaugurata un’altra targa, quella in memoria del Porràjmos, che in lingua romanì significa devastazione; fu posta – non scordiamolo – a perenne ricordo dello sterminio nazi-fascista di mezzo milione di uomini, donne e bambini di etnia rom e sinti. Quando una comunità compie la scelta, altamente simbolica, di erigere un monumento, piccolo o grande che sia, definisce e autorappresenta una parte della propria identità. Nel libro di pietra – e di pietre, e cippi, e steli – che è la città leggiamo infatti la nostra storia; leggiamo ciò che siamo stati, e ciò che siamo diventati.
Nel tempo difficile che attraversiamo, v’è chi, anche in Italia, è tornato ad alimentare quotidianamente la paura del diverso e la rabbia verso l’altro da sé, e promuove continue e violentissime campagne d’odio. Commemorare degnamente i caduti della Resistenza, celebrare la giornata della nostra Liberazione nazionale significa, dunque, avere una memoria viva del segno che abbiamo voluto lasciare, pochi anni fa, in questa piazza: è sufficiente che ad un solo uomo siano negati i propri diritti fondamentali, perché siano negati a tutti, perché quei diritti cessino di essere tali e si mutino soltanto in privilegi per qualcuno; è sufficiente che sia offesa la dignità di un solo umano perché sia calpestata quella di tutti.
La targa dedicata alle vittime del Porrajmos ci ricorda che la fermezza dei nostri principi democratici è alla prova esattamente quando siamo chiamati ad assicurarne il rispetto nei confronti di coloro che sentiamo più distanti o, addirittura, persino ostili.
Solo se saremo rigorosi ed intransigenti nel garantire universalmente i diritti inviolabili della persona, potremo essere parimenti esigenti nel pretendere l’ottemperanza ai doveri inderogabili che ciascuno ha nei confronti del prossimo e dell’intera comunità. Così potremo onorare, proseguendo a modo nostro l’opera loro, quanti fecero la scelta della libertà, pagandola con la vita, come Alvaro Boccardi, Aldo Calugi, Lando Vinicio Giusfredi, Valoris Poli, i nostri “ragazzi della Fortezza” uccisi dalla esecrata criminocrazia fascista a seguito di un processo farsa, che li condannò pretendendoli «disertori e renitenti», perché non vollero arruolarsi nell’esercito repubblichino.
Così onereremo la memoria e rinnoveremo l’esempio di Silvano Fedi, arrestato ad appena 19 anni, già nel 1939, per «associazione e propaganda antinazionale», prima ancora di divenire protagonista indiscusso della Resistenza pistoiese, con le sue Squadre Franche Libertarie.
Silvano Fedi nacque nel 1920, per sortilegio proprio il 25 di aprile. Morì il 29 luglio del 1944 in un’imboscata, sulle cui matrici originarie dev’esser fatta ancora piena luce, nonostante significative ricerche sul tema, anche recenti. Silvano non vide la Liberazione della sua città, avvenuta solo poche settimane dopo il vile agguato, né poté festeggiare, poco meno di un anno dopo, il suo venticinquesimo compleanno e, insieme ad esso, la Liberazione del Paese, che fu possibile anche grazie al suo eroico sacrificio. Oggi è bello festeggiare, idealmente insieme anche a lui, la giornata della dignità nazionale, fondativa della Repubblica democratica e antifascista, e quello che sarebbe stato il suo novantaseiesimo compleanno.
È giusto ricordare qui, in questa solenne cerimonia, il lascito di un altro partigiano, Aldo Michelotti, morto lo scorso martedì, all’età di 90 anni. Aldo Michelotti, il Biondino, entrò in fabbrica all’età di 14 anni, nel 1940, alle officine Galileo di Firenze. Fu lì che iniziò quell’apprendistato antifascista che lo portò, dopo l’8 settembre, a rifiutare l’arruolamento nell’esercito di Salò e a dar vita, il 12 novembre, ad una formazione partigiana, della quale fu nominato comandante, nonostante fosse il più giovane del gruppo. Aldo Michelotti ha testimoniato, con la sua vita, soprattutto per coloro che non hanno vissuto direttamente quei drammatici eventi, la vitalità, la forza e l’attualità di un messaggio di impegno personale, di ribellione all’ingiustizia, di non conformismo, di difesa e promozione attiva, della libertà e della civiltà per ognuno e per tutti.
A lui e a tutti i ribelli, i patrioti, i resistenti che combatterono sulle montagne e nelle pianure, anche delle nostre terre, vogliamo nuovamente in questa occasione rendere un commosso omaggio.
Lo faremo anche il prossimo 2 giugno: durante le celebrazioni del Settantesimo anniversario della Repubblica nata dalla Resistenza, il signor Prefetto consegnerà trentanove Medaglie della Liberazione, che il Ministero della Difesa ha realizzato in occasione del Settantesimo anniversario dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, come riconoscimento a partigiani, ex internati nei lager nazisti e combattenti inquadrati nei reparti regolari delle Forze Armate, simbolo di gratitudine per l’impegno da loro profuso nell’affermare i principi di libertà e di democrazia.
La Resistenza italiana non fu solo un moto di liberazione nazionale. Fu anche parte di un fronte internazionale più grande: altrove, infatti, in un’Europa devastata da una guerra che non si combatteva solo sul fronte militare ufficiale, ma ovunque, nelle campagne e nelle città, ci furono donne e uomini che scelsero di essere parte attiva nei movimenti di riconquista della libertà dei propri Paesi.
Popoli diversi furono solidali nel desiderio di un mondo nuovo, di un futuro di pace. È in questa vicenda collettiva, in questo afflato e anelito corale, che trova la sua radice il sogno di un’Europa democratica ed unita.
Nel momento più terribile e buio della guerra, degli uomini al confino, isolati a Ventotene, immaginarono – già nel 1941 – una federazione europea di popoli liberi. Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni sentirono l’urgenza di disegnare per l’Italia e per l’Europa del dopoguerra un ordinamento in grado di impedire il sorgere di nuovi totalitarismi e, dunque, di assicurare la convivenza pacifica tra i vari stati del continente.
Da quella loro prigionia tracciarono le strade impervie e necessarie per giungere ad un’Europa unita: «un saldo stato federale» – scrissero – «il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli. […] Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi: del movimento per l’Europa libera e unita».
L’aspirazione di questi uomini al superamento degli angusti confini statuali, e dei nazionalismi che infiniti lutti causarono all’Europa, divenne impegno della Repubblica, grazie all’elaborazione alta e unitaria dei Costituenti, attraverso l’articolo 11 della Carta fondamentale del Paese: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Con straordinaria lungimiranza i padri della costituzione posero in questione alla radice il feticcio della sovranità assoluta dello stato-nazione e consentirono al nostro Paese di partecipare non solo all’Organizzazione delle Nazione Unite, ma anche – e da protagonista: ed era allora tutt’altro che scontato – al processo di integrazione europeo che sarebbe iniziato di lì a breve.
Sono passati sessantacinque anni dal 18 aprile 1951, quando a Parigi, per l’impegno soprattutto di Jean Monnet e Robert Schuman, il Belgio, la Francia, la Repubblica Federale Tedesca, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e l’Italia costituirono la Comunità europea del carbone e dell’acciaio.
Cinquantanove anni ci separano dalla firma dei Trattati di Roma, che formarono giuridicamente la Comunità economica europea, e la Comunità europea per l’energia atomica.
Ventiquattro anni fa, tre anni dopo la caduta del muro di Berlino, quella prima Comunità di Stati che, nel frattempo, era già cresciuta con l’ingresso della Spagna, del Portogallo, della Germania unita, della Danimarca, della Grecia, del Regno Unito e dell’Irlanda, rifondò se stessa, attraverso il Trattato di Maastricht, come Unione Europea.
Fallito il tentativo giusto di dare alla nuova Europa una costituzione, nove anni orsono, con la firma del Trattato di Lisbona, ha assunto piena dignità giuridica la Carta di Nizza.
Esattamente da qui dovrebbe riprendere il cammino dell’integrazione europea, figlio di un processo particolarmente faticoso, che è ancora largamente incompiuto, e che oggi rischia – come mai è avvenuto prima d’ora – di regredire rovinosamente ed irreversibilmente.
Offuscate le ragioni ideali che fondarono il progetto dell’Europa unita, soffocate le radici democratiche delle istituzioni comunitarie, in balia della paura ingenerata dal terrorismo fondamentalista, si tornano a costruire muri, anziché ponti, a chiudere confini, anche sulle Alpi, a cercare facili ed inquietanti rassicurazioni negli angusti recinti di identità particolaristiche, perfino a rinnovare l’aberrazione umana e giuridica di leggi apertamente “razziali”.
Non può essere questa l’Europa. Se consentissimo davvero che fosse questa, tradiremmo la memoria, le ragioni e le passioni di quanti lottarono, e spesso perirono, proprio per fare del nostro un continente di pace e democrazia.
Lucien Febvre, in un mirabile corso tenuto al College de France tra il 1944 e il 1945, con lucidità e disincanto, riflettendo sull’idea di Europa, suggeriva: «Dobbiamo dire: “da europei, da buoni europei, cerchiamo di essere dei buoni ostetrici di civiltà” […]. Non asservire. Non sottomettere con la forza. Non assimilare. Aiutare gli altri ad espandersi. Essere buoni giardinieri, che non contrastano con la natura, ma che aiutano le piante, le piante extraeuropee, a crescere, a svilupparsi, a espandersi e dare buoni frutti». A vivere liberamente, si potrebbe aggiungere.
Febvre proseguiva, poi, chiarendo come non sia affatto «un ideale quello di mantenere l’ordine, di stabilire la sicurezza, di proteggere la libertà, e altre simili formule care ai giuristi e ai politici […]. Il negativo non crea niente, non determina niente, non suscita niente. Ci vuole una intesa, una intesa positiva o una emulazione per raggiungere grandi obiettivi, per realizzare in comune grandi opere umane. Ci vuole un mondo che abbatta le sue barriere autarchiche. L’autarchia è la guerra. Ci vuole un mondo su cui possano passare liberamente grandi ventate di gioia, di lavoro e di devozione, un mondo che si applichi a grandi lavori mondiali prestigiosi e di scala tale da consentire il sogno, il sogno che è più necessario agli uomini del pane, il sogno senza il quale non ci sono azioni possibili. Bisogna che il prestigio di cui godette la guerra, il sacrificio di guerra, l’eroismo di guerra si trasferisca ora alla pace: non una pace molle, inerte, egoista e malsana; una pace virile, una pace che lotta, una pace che vuole la salvezza dell’umanità»[3].
È quello di cui abbiamo bisogno.
È ciò di cui ha bisogno l’Europa: ritrovare un orizzonte comune, un progetto condiviso di pace: di libertà, di fraternità e di eguaglianza. Un orizzonte di senso che necessariamente, se non vuol negare l’universalità dei valori su cui si fonda, deve impegnare l’Europa unita nel mondo, oltre i propri confini, senza paura.
Gli attacchi a Charlie Hebdo, al Bataclan, a Bruxelles ci hanno fatto sentire tutti francesi e belgi, perché ci hanno fatto sentire innanzitutto, nuovamente europei, cittadini di un’unica comunità democratica, ricca di diversità, unita da antichi e modernissimi valori.
Saremmo buoni europei, però, nel senso dei buoni giardinieri di cui diceva Lucien Febvre, se non ricordassimo, anche, che soltanto nei quattro mesi che separano l’ultimo attentato di Parigi da quello dello scorso marzo a Bruxelles, il terrorismo di matrice islamista ha compiuto altri sessanta attentati?
A Mogadiscio, Tel Aviv, Beirut, Yola, Maiduguri e Borno in Nigeria, Bamako e Kidal in Mali, Baghdad, Al-Khums e Zliten in Libia, a Tunisi, a Giza, a San Bernardino, ad Aden in Yemen, a Kabul, a Nakheeb in Iraq, a Parachinar, Mardan e Quetta in Pakistan, a Gerusalemme, a Hurghada e sul Sinai in Egitto, a Istanbul, a Kolofata in Camerun, a Jakarta, e in tante altre città del mondo: non possiamo non ricordarlo. Non possiamo infatti accontentarci di una lettura distorta della realtà che ci vorrebbe tutti improbabilmente impegnati in uno scontro di civiltà contro l’Islam.
E invece dovremmo tornare ad essere tutti partigiani della ragione, ingaggiati per quell’ideale illuministico della pace perpetua, invocato da Immanuel Kant già alla fine del Settecento.
Quello che sta accadendo intorno al nostro Mediterraneo è, infatti, ed evidentemente, molto più complesso di quanto qualche demagogo, cinico ed irresponsabile, vorrebbe far credere. «L’uomo civile – scriveva Altiero Spinelli, nel 1942, a proposito del razzismo – è un prodotto complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo. Ma quando gli uomini vengono a trovarsi di fronte a problemi la cui soluzione è di importanza vitale e di cui tuttavia non riescono a venire a capo per le resistenze che incontrano e per la mancanza di strumenti atti a risolverli in modi civili, quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze primordiali. Le quali tendono a risolvere le difficoltà colla violenta imposizione della loro volontà».
Ma noi sappiamo bene – proprio perché la storia gloriosa che oggi celebriamo ce lo ha insegnato – che l’odio, la violenza, la propaganda razzista non soltanto è orribile e ingiusta in sé, ma non risolve affatto le difficoltà. A soccorrerci per costruire soluzioni che sappiano inverare, oggi e domani, i principi democratici della nostra comunità può essere solo una interpretazione compiutamente laica, certo impietosamente realistica, ma lucida e razionale della realtà e della storia.
Noi oggi celebriamo una giornata storica: il 25 di aprile, giorno della Liberazione nazionale.
Ha scritto Norberto Bobbio che in quel giorno memorabile, settantuno anni, «un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva. Non avevamo più segreti da nascondere. E si poteva ricominciare a sperare. Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà. Sono stati giorni felici; e nonostante i lutti, i pericoli corsi, i morti attorno a noi e dietro di noi, furono tra i giorni più felici della vita».