Proseguono a Reggio Emilia le celebrazioni della figura di Enrico Berlinguer, leader del Partito Comunista Italiano dal 1972 al 1984, ovvero fino a 6 anni prima dello scioglimento del partito accelerato dallo spaventoso massacro di Tienanmen e dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica.
La trasfigurazione di Berlinguer in una sorta di santino, un Padre Pio della sinistra, è certamente funzionale, a livello nazionale, alla volontà di Elly Schlein e del suo inner circle (l’ex governatore del Lazio Nicola Zingaretti in primis) di ridare una riverniciata ‘de sinistra’ al PD. Il pendolo del partito, oggi all’opposizione, vira temporaneamente a sinistra, ma state abbastanza certi che, se il PD dovesse tornare al governo, il pendolo rioscillerà più al centro, per non dire a destra. Magari, ma speriamo proprio di no, l’Italia di un ipotetico governo Schlein ribombarderà Belgrado, come fece nel 1999 il governo di Massimo D’Alema, da tempo invece impegnatissimo a ricostruire un ordine mondiale a suo dire più giusto con la collaborazione di Xi Jinping e dei compagni di sempre del Partito Comunista Cinese.
A Reggio la “nostàlghia” berlingueriana ha assunto toni un po’ parossistici, non passa praticamente mese senza che non si tengano un convegno, una mostra, un seminario tesi a dimostrare quanto fosse stato lungimirante e preveggente Enrico Berlinguer. Purtroppo per lui, però, fu incompreso dalla grande maggioranza degli Italiani, che hanno sempre preferito votare, quando era in vita e pure dopo, partiti più rispettosi delle nostre borghesissime istituzioni e dello stile di vita un po’ molle e lascivo dell’Occidente. Ma anche nel 2024 i Reggiani, come è noto, in politica vogliono fare i primi della classe, sono cioè i più fedeli alla linea.
Dunque non solo al comando della città sono stati ricatapultati, direttamente dagli anni ’80, i vertici della ex FGCI (Federazione Giovani Comunisti Italiani, da non confondere con la Federazione Italiana Gioco Calcio), con la nomina a sindaco di Marco Massari e il suo attempato entourage. La politica reggiana che conta, come detto, è da tempo in piena “berlinguermania”. Noi non daremo un giudizio storico-politico su Berlinguer, che ha comunque un grande, indiscusso merito: quello di avere fermato la deriva estremistica della sinistra negli anni del terrorismo rosso e dello stragismo nero.
E dunque di avere salvato l’Italia dalla guerra civile, grazie al “compromesso storico” e alla “solidarietà nazionale” con la Democrazia Cristiana. All’epoca, per queste scelte, bollate come un cedimento verso il potere costituito, Berlinguer fu criticato da chi oggi a Reggio lo idolatra, ma passiamo oltre. Non daremo altri giudizi, pertanto, perché il giudizio sul comunismo lo ha già dato la Storia. Ci limitiamo a risollevare un tema che, curiosamente, è stato ridiscusso anche nell’ultimo evento di questa prolungata liturgia berlingueriana, quello che si è tenuto lo scorso weekend a Palazzo Masdoni in via Toschi, l’ex sede reggiana del PCI.
Ovvero la battaglia, malamente persa, di Berlinguer e del Pci contro la tv a colori. Al convegno reggiano sono riusciti infatti nell’impresa veramente spericolata di dare ragione a posteriori a Berlinguer anche su questo bizzarro caso, che ai nostri occhi può apparire minore e un po’ grottesco, ma 50 anni fa infiammò le discussioni nei bar, in Parlamento e sulle pagine dei giornali. Nel convegno di via Toschi, che ha avuto tra i protagonisti l’ex Segretario nazionale della FGCI Pietro Folena, riscongelato per l’occasione dopo anni di oblio, è riecheggiata la teoria secondo la quale la battaglia di Berlinguer contro il tv color sarebbe stata motivata dal timore che l’introduzione dello strumento catodico venisse monopolizzata dalle grandi multinazionali e dai “poteri occulti”. E dunque l’avversione del PCI verso la tv a colori sarebbe stata addirittura largamente in anticipo sui tempi odierni, dove assistiamo alla concentrazione della proprietà dei social nelle mani di pochi mecenati, come Zuckerberg e Musk, di non sempre provata sensibilità democratica.
Purtroppo per i nostalgici di Berlinguer, invece, le cose negli anni ’70 andarono diversamente da come le descrivono loro. L’Italia fu l’ultimo dei grandi Paesi occidentali ad introdurre la tv a colori per colpa di un’ostilità traversale che accomunò alcuni partiti di governo, come il Partito Repubblicano e l’ala sinistra della Democrazia Cristiana, ma trovò sponda anche nella forte contrarietà del Partito Comunista. Se nel Partito Repubblicano di Ugo La Malfa l’opposizione al tv color era motivata dal timore che la corsa degli Italiani all’acquisto dell’agognato oggetto avrebbe provocato un’ ulteriore impennata dell’inflazione, è sufficiente rileggere le pagine de “l’Unità” dell’epoca per comprendere che le motivazioni dei comunisti erano anche di altro tenore.
In particolare, il tv color andava a confliggere frontalmente con quell’elogio dell'”austerità” che era diventato il cavallo di battaglia del PCI. Sembrava fatto apposta per ridestare nel Paese quella spinta al “consumismo”, che era puro fumo negli occhi per Berlinguer e per la classe dirigente comunista del tempo, dedita a contrastare nel “popolo” qualsiasi cedimento verso l’economia di mercato e verso l’afflusso di beni di largo consumo, che il progresso tecnologico metteva a disposizione di tutti a prezzi più o meno accessibili. Per i comunisti italiani, insomma, si sarebbero prima dovuti soddisfare bisogni più importanti, come la sanità, la casa, ecc. Anche “La Stampa”, il quotidiano degli Agnelli, era fieramente contraria: i soldi nelle tasche dell’italiano medio erano pochi ed era meglio che venissero spesi in automobili non troppo costose, quelle fabbricate a Torino.
Poi la DC ruppe gli indugi, col PCI sempre all’opposizione, e finalmente la tv a colori ebbe il via libera per entrare anche nelle nostre case. L’unico risultato di questa trasversale crociata protezionistica, retrograda e antimodernista, oltre al clamoroso ritardo che fino al 1977 costrinse gli Italiani a vedere la tv in bianco e nero, già gettata in discarica da almeno 10 anni in Francia, Germania e Gran Bretagna e da 20 negli Stati Uniti, fu che l’industria nazionale rimase irrimediabilmente indietro nello sviluppo della nuova tecnologia. Così tutti si affrettarono a comprare televisori tedeschi, facendo la fortuna delle aziende teutoniche. Per il PCI si trattò dell’ennesima, manifesta dimostrazione di incapacità di sintonizzarsi sulle aspirazioni più profonde degli Italiani, anzi delle “masse popolari”, come le chiamava il Pci stesso. Che è l’altro vero motivo, insieme al mai del tutto reciso cordone ombelicale con l’Unione Sovietica, che per 43 anni, cioè dal 1948 al 1990, ha impedito al Pci di stare anche per un solo giorno al governo del Paese.