Prima puntata – Da giovane aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti, dalla quale era uscito con un diploma e una decorosa votazione, e con i giudizi positivi di tutti i componenti del corpo insegnante, che avevano vaticinato, per quel giovane serio e pensieroso, un avvenire forse non scoppiettante ma ricco di solide soddisfazioni. Le prime mostre, verso i venticinque anni, erano state salutate dai giornali locali con un coro di composti, lusinghieri commenti: Alla galleria Il Fiume, personale di Alfio Berangeri, un nome da tenere presente, oppure: Berangeri, una promessa che è già quasi mantenuta.
I critici cittadini, anzianotti, parrucconi e notoriamente ostili a qualsiasi cosa che odorasse anche lontanamente di nuovo, lo avevano accolto con simpatia, cosa rara per i giovanotti della sua età che si affacciavano al mondo dell’arte. E comprensibilmente: Berangeri non sembrava volersi scostare nemmeno di un passo dal linguaggio figurativo veneto dell’ottocento e dei primi decenni del novecento, il solo che essi accettassero senza riserve.
I pittori suoi coetanei, invece, a sentire il suo nome piegavano le labbra in un sorrisetto di scherno, quando non lo irridevano apertamente: per loro, che vedevano la ragione della loro arte solamente nella continua ricerca di nuovi modi di espressione, la scelta di Alfio era indice di una mentalità piatta, gretta e bottegaia.
Già, perché Berangeri vendeva. Aveva cominciato ancora ai tempi dell’Accademia: le sue tele erano state piazzate dapprima presso il parentado, fino a zii e cugini di settimo grado, i quali, in visita, si vedevano consegnare con un sorriso orgoglioso l’ultimo prodotto del giovane artista, già incorniciato e imballato in carta velina bianca. Dopo gli ooh di meraviglia e i complimenti e i ringraziamenti del caso (lo voglio appendere sopra il caminetto della casa di Bassano, ci starà benissimo) il loro sorriso si spegneva un poco: quando veniva loro comunicato, a mezza bocca, che Alfio chiedeva per quel dipinto centoventimila lire, almeno per rientrare delle spese di tela, colori e cornice.
Aveva continuato piazzando le sue opere presso i fornitori del padre, che aveva un ben avviato ingrosso di tessuti e maglieria, e che spesso erano costretti ad abbassare i prezzi di una partita di pezze di gabardine o di jersey con l’argomentazione: guardi, non un centesimo di più. Però in cambio le voglio regalare un dipinto di mio figlio Alfio, che ha già una rispettabile quotazione sul mercato.
Insomma, anno dopo anno, mostra dopo mostra, critica dopo critica, Alfio Berangeri aveva raggiunto una certa reputazione in città, perlomeno presso il tipo di pubblico che gli interessava. I suoi paesaggi fluviali, le sue cime innevate, le sue marine ornavano i salotti da ricevere, le sale da pranzo con i loro funerei buffet e controbuffet, le anticamere di studi notarili e medici, e qualche sua odalisca accendeva la fantasia dei visitatori anche in certi più audaci appartamentini da scapoli.
Non fu mai costretto, per sbarcare il lunario, a piegarsi ad esercitare altri, più umili mestieri, come molti pittori che erano stati suoi compagni d’Accademia: nessuno lo vide mai servire ai tavoli d’un caffè, né consegnare pacchi, né distribuire pubblicità. Né dovette adattarsi a insegnare disegno presso qualche scuola privata: la famiglia dapprima, poi i proventi delle vendite delle sue tele bastavano a garantirgli non solo il necessario, ma anche qualcosa di più…. Il racconto continua, martedì 31 la seconda puntata.
Foto www.artericerca.com: Francesco Guardi, Veduta lagunare, olio su tela 32,8 x 53,6 cm. Collezione privata