Beni culturali: L’Economist, Franceschini e il business

Firenze – La notizia, ripresa dal “Sole 24ore”, del bando pubblicato dall’ “Economist” per la ricerca di direttori per 20 musei italiani, indicati dal ministro dei Beni Culturali  Dario Franceschini, in seguito alla riforma che prevede lo smantellamento dell’attuale del sistema delle Soprintendenze, non può non suscitare curiosità. Se  il prestigioso magazine britannico  accoglie una notizia del genere, è segno che è un buon bocconcino, perché non  spreca le sue preziose righe per niente.

Basti pensare alle secolari golosità  della “perfida Albione” (ma non solo !) per il nostro straricco -. e finora difficilmente raggiungibile .- patrimonio artistico , per immaginare come l’anonimo redattore della notizia  si sia leccato  i baffi, con la proverbiale ironia del pur ufficialissimo organo di stampa internazionale. Non che ciò significhi , in caso di un direttore –manager di un nostro grande museo- inglese, americano o giapponese che sia –  una minore tutela delle nostre opere d’arte; anzi dal punto di vista dell’efficienza tecnica, qualcosa anche di migliore. Ma  insomma, da questo punto di vista i nostri soprintendenti e la nostra vecchia Arma dei Carabinieri, settore  specializzato  nella protezione e nel recupero delle opere d’arte, hanno fatto il loro dovere.

Il problema semmai è quello generale, da decenni,  del nostro paese: i pochissimi fondi destinati ai Beni culturali e una certa inefficienza, specie in alcune aree geografiche, di gestione. Ma, detto questo, appare strano che si debba andare a cercare all’estero specialisti che spesso, quanto a preparazione  professionale e di studiosi, si sono spesso formati da noi: basti pensare a tutto il mondo della conservazione e del restauro, per dire l’istituto Centrale del restauro a Roma o l’Opificio delle pietre dure a Firenze. Che ci fosse bisogno di consulenti economici o simili , è probabile, come in tutti i campi, oggigiorno. Ma è anche probabile che bastasse cercare in casa nostra specialisti e specialismi di ogni tipo, e normative appropriate  da far valere (!), per trovarne,  in un settore in cui non siamo indietro a nessuno. Al solito perché svendersi? E svendere ad altri un settore così prezioso e rappresentativo della nostra tradizione culturale e  identità nazionale?

La risposta può essere una sola : il business. Ma un business  miope e sciagurato che non sa guardare oltre  un economicismo  di stampo forse anche vecchiotto  e provinciale , malato di americanesimo, come la mania dell’uso di quella lingua , spesso anche a sproposito , nel cuore della nostra politica nazionale, che rischia di non farsi capire al cittadino  comune, non necessariamente bilingue.

Un discorso di progettazione, e anche di bilanci più appropriati, non confligge certo col bisogno di riforme nel campo dei beni culturali –  museali e archeologici. Ma riforme oculate, perché stiamo mettendo le mani fra le cristallerie di famiglia, e ci vuol poco a stritolarle  e a suscitare beghe micidiali fra gli incaricati, siano pure i più qualificati del mondo, specie se, in ultima analisi, a gestirli dovrà essere il vecchio ministero  con tutti i suoi problemi e  deficienze .

Annamaria Piccinini

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