Battlefield di Brook: nessuno vince nel girotondo dell’anima

Firenze – Per il vecchi suiver di cose teatrali resta fra le più memorabili. Chi ha avuto la fortuna di vederlo 30 anni fa (in Italia, dopo il debutto al festival di Avignone, approdò al Fabbricone di Prato) non l’ha dimenticato. Il “Mahābhārata” di Peter Brook, nove ore di spettacolo ispirato al celebre poema indiano, il più ampio di tutta la letteratura mondiale, uno dei testi fondamentali della religione induista, fu epico.

Una leggenda vivente. Come il suo autore oggi 91enne. Che con “Battlefield”, andato in scena alla Pergola (due esauriti) nell’ambito di Fabbrica Europa, fa rivivere le stesse fascinazioni ma in formato ridotto: quattro soli attori più un musicista (dai quindici di trent’anni fa) per un atto unico di poco più di un’ora. Al centro della scena, minimalista e sospesa, uno spazio vuoto color ocra di indicibile leggerezza, che sembra arrivare, finalmente pacificato, da un fondo di distruzioni e catastrofi, si sviluppa una sorta di girotondo dell’animo, un interrogatorio al cielo e alle stelle che guarda la luna per risalire alla superficie estrema, all’essenza delle cose.

Della vita. Si è combattuta una battaglia. Cruenta. Senza esclusione di colpi verrebbe da dire se, così si racconta, ha provocato milioni e milioni di morti. Di santa ragione se le son date i Pandava e i Kaurava, due famiglie che discendono dallo stesso ceppo, i Bharata. Ma chi può alla fine dichiararsi vincitore? Il profilo di una vittoria sfuma sempre, inevitabilmente, nella sconfitta. E la guerra, qualunque guerra, alla fine sarà sempre una guerra fratricida.

Quindi perdente. Nell’adattamento di Jean-Claude Carrière, rivisto con Marie-Hélène Estienne, “Battlefield” assume i toni di un apologo denso e misterioso, che parla di responsabilità e di destino, di filosofia della vita e potenza del tempo, di visibilità e invisibilità, di animali che raccontano parabole, di bambine che mettono al mondo dei figli e di neonati abbandonati sulle rive del Gange.

Il fiume sacro che diventa come l’ultimo approdo della “Tempesta” scespiriana, la calma filosofica, l’invito alla tolleranza e al perdono, lo stesso Brook novello Prospero dispensatore di equilibri e armonie. Che qui si rivelano, perfettamente calibrati, nell’impasto dei colori e delle luci, che da Piero della Francesca risalgono al Pontormo, nel solfeggio della recitazione, chiara e ispirata fino a toccare ascetiche e metafisiche altezze, nell’ordine ella messinscena che rasenta il rito, la cerimonia illumina la volontà di ripresa, ma la ciclica irriducibilità delle cose, ancorché rarefatta e scarnifica, non sfocia nella rinuncia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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