Firenze – Alle soglie della senescenza, Mikhail Baryshnikov è tornato a conversare con il suo grande amico e sodale Iosif Brodsky: uno dei più grandi ballerini e coreografi del novecento con uno dei più grandi poeti del secolo scorso morto nel 1996.
Un dialogo tutt’altro che freddo e lontano né semplicemente nostalgico. L’uomo che era stato dichiarato “parassita sociale” dal regime sovietico continua a parlare direttamente, profondamente, concretamente con colui che lo ha definito: “non solo un amico, ma per certi versi anche un mentore – una persona che mi aiutò ad affrontare i problemi quotidiani, nonché i difficili dilemmi morali”, ha scritto Baryshnikov.
Così, raggiunti i 70 anni, l’artista che ha sperimentato le infinite variazioni dell’arte del corpo, ha realizzato uno spettacolo che porta nel titolo semplicemente i due nomi di un’amicizia umana e artistica durata ventidue anni – Brodsky/Barishnikov – e lo ha portato in Italia nelle due città alle quali Brodsky era particolarmente legato: Firenze, che lo fece cittadino onorario e, soprattutto, Venezia dove il cantore di Leningrado è sepolto.
Raramente un artista riesce a aprire la sua anima e a raccontare il senso della sua esistenza come è riuscito a Baryshnikov anche grazie al regista Alvis Hermanis. Una sorta di entrata e uscita dalla sua interiorità e dalle sue pulsioni artistiche, dal pubblico al privato, dall’abbandono della patria, alla incessante introspezione alla ricerca non solo delle radici recise, ma anche di ciò che rende la vita degna di essere vissuta grazie al talento, alla creatività, al sentimento.
La scena realizzata sul palco del teatro del Maggio, come lo sarà fra qualche giorno su quello della Fenice, è costituita da una veranda/serra nello stile tipico delle antiche case padronali russe. Casa nella quale si ritrova conforto e sicurezza, dunque rifugio, ma anche gabbia felice, nella quale il protagonista trova gli elementi costitutivi della sua arte.
Ma il dentro vive perché c’è un fuori dove si svolgono gli avvenimenti reali dell’esistenza: una valigia, una sveglia, una panca su cui dorme da esule, un vecchio magnetofono che diffonde la voce di Iosif. Fuori Mikhail legge e recita i versi che vanno a mettere a nudo la tragicità dell’esistenza con la violenza della verità; dentro, all’interno della sua coscienza artistica, ne esprime il significato “non solo con le parole, ma anche cineticamente, perché “i suoi poemi sono insieme intellettuali e istintivi e molto dell’immaginario di cui constano può essere traslato nei modi del linguaggi corporeo”. Come nella Farfalla, per esempio, una delle poesie più belle di Brodsky: per danzarla l’artista si ispira a certe figure del flamenco, così come in altri pezzi utilizza stilemi del teatro giapponese.
Sono pochi i momenti di serenità e abbandono. Le parole poetiche sono pietre che disvelano l’inganno angoscioso dell’uomo che si scopre fragile e vicino alla morte. I clown spianano il circo, l’uomo è più mostruoso del suo scheletro, l’essenza della vita è solitudine. “Voglio solo vivere e dimenticarmi di tutto”, grida il poeta al culmine dell’angoscia.
Ma la serenità interiore, aggiunge Baryshnikov non sta nel chiudere le porte alla verità, nell’oscurare metaforicamente i vetri delle finestre dell’anima, ma nell’accettazione coraggiosa, quasi gioiosa, del proprio destino.
Com’era bello, alla fine, il sorriso di Mikhail dopo che ci ha accompagnato, con il suo amico Iosif, negli abissi della verità.
Brodsky/Baryshnikov al Festival del Maggio musicale fiorentino fino a stasera (ore 20).