Siamo certi, come cantava Battiato nel “lontano” 1981 che “uh com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore”? Un’era fa, viste le trasformazioni intercorse negli ultimi 40 anni. Eppure oggi non si tratta tanto di “indifferenza” quanto di incomunicabilità quando si cerca un briciolo di senso condiviso nel più sordo seppur plurivocifero confronto sociale e politico che s’abbia a ricordare nella storia repubblicana italiana. Vien da porsi una domanda su tutte, ovvero come sia stato possibile arrivare ad un tale livello di incomprensibile logomachia da entrambe le parti e sistematica distorsione di significati e valore di fatti e parole. Per fini strumentali all’ottenimento di una ragione parziale, volubile e volatile quanto il battito d’ali di una farfalla.
Indubbiamente i superficiali ed entusiasti cantori del web (politici, intellettuali, giornalisti e professionisti vari) che inizialmente avevano ravvisato nello strumento tecnologico l’automatica realizzazione di un dialogo platonico e la conseguente costruzione di una polis più partecipata e condivisa, non hanno aiutato a prevedere il rischio che dalla scoperta della ruota in poi sottende ogni potenziale progresso tecnico. Ovvero che la novità tecnologica non è né buona né cattiva in sé ma che semplicemente l’evoluzione o l’involuzione ad essa legati, in questo caso comunicativo, dipendono da chi e come la si utilizzi.
Nello specifico non si è voluto vedere come le piattaforme social, nel contesto di un progressivo disfacimento delle istituzioni scolastiche e culturali, avrebbero piuttosto imbarbarito e non ampliato gli spazi della democrazia. Che dovrebbe vivere di gradi di rappresentatività e riconoscimento di competenze dei singoli e delle parti, sulla base preventiva del coinvolgimento popolare il più ampio possibile. L’imposto egualitarismo delle opinioni, che è, a modesto avviso di chi scrive, l’ultimo e più pesante retaggio di un ’68, positivo su altri fronti, non è compatibile col patto (dalla Magna Carta alla Dichiarazione Universali dei Diritti umani fino alle Costituzioni) su cui si fondano appunto le Democrazie occidentali. Ultimamente bruttine e degeneri certo, ma oltre il cui orizzonte non si vede francamente troppo di meglio. Anzi. Specie nella riproposizione di modelli non tanto contraddittori ed anche ipocriti come il nostro, ma addirittura liberticidi.
Allora cos’è accaduto? La decifrazione dello spappolamento dialettico deve continuare ad insistere nella stantia gabbia della divisione destra-sinistra? E’ questo il perimetro ideale entro cui ritenere, mentre si prospetta la vita umana su altri pianeti, si possa risolvere l’abbruttimento dei toni al netto della vittoria dei “buonisti” o dei “populisti”, secondo una visione manichea che sarebbe parsa semplicistica già ai tempi delle dissertazioni peripatetiche?
O non piuttosto un ulteriore ostacolo, terribilmente retrò e post-post-ideologico, che non aiuta a cogliere l’origine del disagio e i segni della complessità? C’è un malessere ben più profondo che attanaglia l’italica discussione: da una parte la progressiva disintegrazione di un linguaggio comune, o ancor meglio, declinando il problema nei tempi e nei modi della contemporaneità, la non condivisione del significato dei simboli (di cui la lingua, come già insegnava l’Alighieri, è lo strumento comunitario per eccellenza).
Non è un caso che forse il più importante intellettuale italiano del XIX secolo, Umberto Eco abbia dato impulso e sostanza, in largo anticipi sui tempi, alla scienza della semiotica, connettendosi in tal modo con gli studi sulle neuroscienze e sulla progressiva metamorfosi delle metodologie di apprendimento e comprensione dei testi a seconda del supporto di lettura e scrittura. Dunque, in prima istanza, esiste un enorme problema LINGUISTICO-SEMIOTICO-SIMBOLICO, preceduto da decenni di imposizione, mediatica e libraria (ovvero culturale) di un modello del politicamente corretto (che è in primis un “terminologicamente” corretto) che ha sostanzialmente impedito di chiamare i problemi col loro nome e dunque di individuarli correttamente. Un boomerang formativo che è progressivamente esploso, (de)generando poi (in) una sorta di controriforma del vilipendio, nell’utilizzo in libertà delle più grevi e volgari espressioni, metafore e figure retoriche generiche elargite a random e senza pietà né comprensione testuale e/o contestuale.
Dall’altra l’evidente interazione tra pensiero-comportamenti e linguaggio, tradotto nel rapporto spazio-tempo della comunicazione, oggi sempre più scollegata dai necessari meccanismi di riflessione, mnemonici e ricerca originale a favore di un’interconnettività spasmodica e invasiva, tutta tesa alla risposta immediata ben prima del digerire un solo concetto. Inevitabilmente destinata ad essere già vacua e superabile nell’atto stesso della sua enucleazione. Il web, per sua stessa natura, il social-web per sua stessa ontologia, per vivere e permettere la sopravvivenza alla fauna sempre più ricca che la popola, della più svariata umanità (e sempre più spesso invariabile disumanità) necessita di scambi rapidi, non-meditati, a pelle, quasi furtivi.
E di risposte della stessa lunghezza d’onda, che vagolano nell’aere indistinto di meteoriti bla-bla, senza più rotta, senza più meta. Ovvero senza più la necessità di un punto gravitazionale di caduta massi, atti alla costruzione della Casa dell’Uomo. La modalità così denaturata di questo SPAZIO-TEMPO, in cui il fiato o lo sfiato di ciascuno è contemporaneamente percepibile a tutti, è già stata bene delineata a suo tempo dal poeta Ovidio nella descrizione della dea Fama, un edificio fatto di soli ingressi senza porte, aperti giorno e notte, ove entrano senza distinzione le voci di tutti contemporaneamente. Dove ogni parola si equivale, la stupida come la meditata, la verosimiglianza come la stronzata, la calunnia come la verità. Non più nativi scriventi ma nativi digitali.
La ricomposizione sociale passa soprattutto attraverso l’uso appropriato del linguaggio. Nel suo rapporto con lo spazio-tempo.