Alessandro Pala
“Abbiamo bisogno della crescita, l’austerità ci uccide”; questo è un ritornello che ha ormai rimpiazzato l’ormai stagionato (anche se ultimamente è tornato in auge) “sale lo spread”.
Ma cosa significa esattamente crescita? Ed è vero che la crescita è fondamentalmente la nemesi dell’austerità? Al netto delle chiacchere da bar e di quelle politiche, la risposta è no. Se da un lato è vero che una austerità eccessiva contrae i consumi ed ha effetti negativi sul pil, il termine austerità è oltremodo abusato, soprattutto nella penisola italica. Le tasse su prodotti di consumo (benzina, casa etc.) sono misure d’austerità? Decisamente sì.
Una riforma del lavoro che impone un deciso smembramento del sistema attuale verso una maggiore flessibilità, una revisione dei vecchi contratti (in particolare nel settore pubblico) blindati, assolutamente non più sostenibili, e una mobilità che al momento risulta essere fra le più basse d’Europa (lascio a voi indovinare quali sono gli altri paesi che ci stanno sopra in questa classifica), è una misura d’austerità? Assolutamente no. Anzi, la crescita in termini economici si basa essenzialmente su un aumento della competitività (in particolare in una situazione in cui i cambi monetari sono fissi, com’è il caso dei paesi dell’Eurozona) tramite l’abbattimento del costo del lavoro. Guarda caso però, molti italiani spalleggiati da sindacati che si ostinano a vivere negli anni ’70 bollano queste misure come “misure d’austerità che affamano il popolo”.
Troppo comodo ragionare in questo modo; se per crescita si intende invece un esplosione di benefici sociali con aumento vertiginoso della spesa pubblica, allora davvero è inutile anche creare un Ministero delle Finanze e semplicemente ogni italiano può aggiungere la sua idea di crescita e renderla esecutiva. Senza dubbio però riformare totalmente non solo un gigantesco sistema economico ma anche e soprattutto un modo di pensare richiede tempo e un contesto meno esasperato di quella attuale. Se da un lato la Grecia si ostina a volersi suicidare credendo di mettere in scacco il resto d’Europa (non scordiamoci che solo l’Italia ha impegnato circa 25 miliardi solo nel 2012 per sostenere i greci) non rendendosi conto che alla fine dell’estate non si distinguerà l’Acropoli dal resto di Atene, dall’altro abbiamo la Germania che continua con la propria visione ottusa e miope di una Europa capace di sconfiggere tutti i modelli economici, di crescere e “riallinearsi” nonostante mezzo continente sia in recessione e l’altra metà ci sta per entrare.
Sia ben chiaro che, come spesso accade, la Germania non è e non sarà la trionfatrice, ma quella che subirà le maggiori perdite da una disgregazione dell’Unione Europea. Ma come nel caso della Grecia, c’è chi persevera nei propri errori.