Che non ci sia più la globalizzazione di una volta ce ne siamo accorti tutti. I Roaring Nineties sono lontani. Il giocattolo si è rotto: il capitalismo così come lo intendiamo noi, quello che ruota intorno ai concetti di democrazia e mercato aperto, non funziona più. Mala tempora currunt per le idee e i valori, sui quali i paesi occidentali hanno basato il senso delle proprie scelte di fondo. Assistiamo quotidianamente ad un forte arroccamento protezionista e ad una riduzione progressiva degli scambi, i due elementi che viceversa rappresentavano il nerbo della globalizzazione.
Non solo, ma la gente comune nei paesi occidentali vede nella globalizzazione sempre di più un nemico, piuttosto che un sistema in grado di migliorare gli standard di vita, e vota volentieri per quei partiti e candidati, che promettono il colpo di spugna sul globalismo. L’affermazione del populismo e dell’etnonazionalismo denota una trasformazione significativa nell’assetto politico, riflettendo tensioni strutturali e un netto rifiuto per le narrazioni politiche tradizionali.La crisi economico-finanziaria del 2008 prima e poi il fatidico 2016, con il primo avvento di Trump alla Casa Bianca e la Brexit, costituiscono un vero e proprio turning point: nulla sarà più come prima affermano in coro gli economisti mentre i paesi del cosiddetto Global South, alla ricerca di una propria nuova collocazione al centro dello scacchiere globale, si fregano le mani, osservando il progressivo declino del mondo occidentale.
Disuguaglianze di reddito e disparità sociali che creano un’espansione amplissima dell’area di insoddisfazione, crescente polarizzazione politica e calo della fiducia nelle istituzioni politiche tradizionali e nelle élites caratterizzano il nostro tempo. Prevedere cosa accadrà è praticamente impossibile, almeno fino a che il nuovo presidente americano non entrerà in carica per la seconda volta. Senza contare che abbiamo una guerra in Europa e il Medio Oriente in fiamme. Dire che la situazione è caotica è fin troppo facile.
Gary Gerstle, americanista eccellente presso l’Università di Cambridge, gli ultimi sviluppi del mondo che rotola senza una direzione precisa non arriva a commentarli nel suo libro pubblicato nel 2022, ora tradotto anche in italiano. Si ferma prima, ma ci fa capire che già prima dell’avvio delle ostilità in Ucraina non era così arduo comprendere che il meccanismo dell’ordine neoliberale, come lo chiama lui, si era disintegrato sotto la spinta di nuovi attori globali determinati a imporne uno diverso. Il libro presenta spunti di grande interesse, accolti con favore sia dalla critica accademica sia dal pubblico dei lettori, ma anche una domanda inevasa: dov’è andato a finire il mondo, di cui Gerstle parla nel titolo? In realtà il saggio è interamente dedicato agli Stati Uniti, dietro ai quali, facendo un certo sforzo, in controluce è possibile scorgere solo l’Europa occidentale.
L’originalità del lavoro di Gerstle risiede nell’elaborazione del concetto di “ordine politico”, intendendolo in termini di costellazione di ideologie, politiche e poteri, che danno forma all’indirizzo del governo al di là dei cicli elettorali. Lo studioso americano, che non ama le tradizionali etichette comuni ad altre storie politiche di liberale o di conservatore considerate categorie stantie, sviluppa l’idea che per stabilire un ordine politico non basta vincere una o più tornate elettorali e instaurare un cambio di maggioranza.
Ci vuole molto di più: donatori con grandi disponibilità economiche, la creazione di think tank e reti politiche che trasformino le idee politiche in programmi attuabili, un partito politico in grado di conquistare più circoscrizioni elettorali su base costante, la capacità di plasmare l’opinione politica dai livelli più alti a quelli più popolari e infine una visione morale capace di motivare gli elettori. Rispetto ad un altro aspetto la costruzione teorica di Gerstle spicca per diversità: un attributo chiave di un ordine politico è la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare il partito di opposizione alla propria volontà fino ad assumerlo nel proprio progetto, trovando sostanzialmente un terreno comune per agire. Gerstle afferma che un ordine politico deve possedere un carattere proteiforme, in grado di accrescerne la capacità attrattiva, garantire una durevole egemonia politica e andare in ultima analisi al di là della distinzione canonica fra destra e sinistra.
È necessario però, ci dice Gerstle, un altro presupposto: che il precedente ordine vada in crisi e si creino le condizioni quindi per essere superato. In pratica, Gerstle afferma che negli ultimi cento anni, l’America di ordini politici ne ha avuti principalmente due e ora si affanna per cercare di venire a capo della tipologia di ordine politico, che sta prendendo corpo. Il primo è stato il New Deal, sorto in seguito alla grande crisi del 1929, che ha retto fino all’imporsi negli anni Settanta-Ottanta del neoliberismo. L’ordine neoliberale a sua volta ha raggiunto il proprio apice con la spinta dell’economia globale, ha subito un primo colpo mortale con il crollo del 2008 per soffrire definitivamente otto anni dopo per il combinato disposto dell’addio europeo della Gran Bretagna e dell’elezione del successore di Obama. Secondo Gerstle i nuovi ordini politici sorgono e si impongono nei momenti di crisi economica, quando il precedente ordine comincia a non funzionare più.
Fino alla metà degli anni Sessanta e oltre il New Deal resse, fornendo all’epoca della grande crescita economica americana una base considerevolmente stabile. Poi hanno cominciato a farsi sentire i primi scricchiolii: Grestle sottolinea il ruolo svolto dal tema della segregazione razziale e dalla guerra in Vietnam. L’ordine dei neoliberisti ha prosperato altrettanto a lungo, inizialmente innescato dalla crisi economica dovuta principalmente allo shock petrolifero, sulla base delle parole d’ordine privatizzazione e deregolamentazione, centralità del libero mercato che senza vincoli avrebbe liberato creatività ed energie individuali compresse durante il New Deal, diritti di proprietà, riduzione dell’intervento statale e progressivo smantellamento del potere dello Stato federale, tutti elementi in grado di svincolare il capitalismo da inutili e pesanti controlli statali e quindi di aumentare prosperità e libertà personale, tutti elementi che cominciarono ad imporsi già a partire dal decennio precedente anche in forma di relazioni interconnesse fra attivisti, teorici, think tank, intellettuali, politici e donatori molto prima che Reagan conquistasse la Casa Bianca. Il carattere multiforme del neoliberismo e soprattutto l’enfasi sull’emancipazione individuale gli garantì, come afferma l’autore, un fascino trasversale allo spettro politico, divenendo forza ideologica egemonica.
Una delle argomentazioni maggiormente originali svolte da parte di Gerstle riguarda la partecipazione all’esperienza neoliberista di movimenti, che secondo il nostro modo di vedere oggi chiameremmo di sinistra. L’elemento su cui l’autore fa leva è la matrice liberale e libertaria, integrata del resto nella stessa storia degli Stati Uniti, che rappresentava l’anima dell’ideologia hippy degli anni Sessanta e Settanta massimamente impegnati, come sull’altra sponda la politica reaganiana, a liberare i cittadini da un eccesso di vincoli posti dalle autorità e da ogni oppressione. La rivolta politica e controculturale libertaria e individualista, che caratterizza gli anni Sessanta e prosegue nel decennio successivo, in realtà avrebbe un percorso comune con il neoliberismo, condividendone le idee di fondo a partire dalla forte opposizione alla eccessiva organizzazione e burocratizzazione della società americana derivante dal New Deal.
Quanto questa ibridizzazione sia risultata funzionale allo sviluppo del neoliberismo secondo Gerstle è testimoniato dal comportamento del presidente Bill Clinton, che guidò l’America dal 1992 al 2000 e con il quale da movimento politico il neoliberalismo si trasforma in ordine politico. Secondo l’interpretazione di Gerstle, Clinton è la figura chiave che permette di ottenere l’acquiescenza democratica all’ordine neoliberale repubblicano. Crollato il comunismo, non esistevano più freni al trionfo dell’ordine neoliberale. Firma il NAFTA, avvia la liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni nel 1996, autorizzando in pratica lo sviluppo di Internet al di fuori di qualsiasi regolamentazione pubblica, abroga il Glass-Steagall Act tre anni dopo, aprendo le porte alla completa finanziarizzazione dell’economia. Cedendo alle lusinghe del mercato, celebra le sorti progressive dell’Occidente e avvia un percorso modernizzante che illusoriamente sembrava all’epoca poter fare a meno dell’industria. Così la vecchia classe operaia, incapace di trasferirsi sulla sponda dei settori economici tecnologici strategici e umiliata dal trasferimento delle produzioni nei paesi emergenti, ha cominciato a gonfiare le file degli scontenti confinati nelle aree del paese, dove la globalizzazione porta riduzione del welfare, disoccupazione e disuguaglianze.
L’attacco alle torri gemelle del 2001 e la conseguente reazione americana guidata dal presidente George W. Bush costituiscono per l’ordine neoliberale il primo segnale d’allarme, che si trasformerà nel giro di qualche anno in un lento scivolamento verso la crisi conclamata. Se Gerstle con Clinton si mostra estremamente severo, Bush nel libro lo maltratta, definendo le sue politiche arroganti e inette. Dall’orizzonte dell’ordine neoliberale non spariscono i capisaldi liberisti come la deregulation, resa ancora più frenetica al punto da alimentare la bolla del mercato azionario. Ma non basta. Il fiasco iracheno, la guerra rovinosa e la ricostruzione secondo principi ultraliberisti che non ha trasformato l’Iraq in un’area pacificata, sono associati alla pretesa di esportare la democrazia, diventato ormai una specie di mantra di stupidità.
Bush poi allarga il mercato della proprietà immobiliare, incentivando l’acquisto di case con mutui alla portata anche dei ceti inferiori. Un tale comportamento, alla base di una devastante bolla immobiliare, qualche anno dopo si rivelerà disastroso, spingendo quindi verso la crisi dei subprime. Inizia il declino dell’ordine neoliberale, che condurrà al turning point del 2008, che rappresenta uno spartiacque nella storia della globalizzazione. Le fragilità intrinseche di un sistema basato sulla deregolamentazione e sulla speculazione finanziaria non potevano che portare ad una crisi di quelle dimensioni.
L’ordine neoliberale globale subisce un colpo, dal quale in pratica non si rialzerà per giungere alla fine della sua corsa otto anni dopo, quando la coincidenza della prima elezione di Donald Trump e della Brexit, oltre ai profondi cambiamenti occorsi nel frattempo alle società occidentali, ne decretano la morte sotto i colpi di movimenti politici estremi – Tea party, Occupy Wall Street, Black Lives Matter, tutti dogmatici e intolleranti – che hanno contribuito significativamente alla disintegrazione dell’illusione della globalizzazione e dell’ordine politico esistente.
Nel libro non compaiono ricette. Gerstle riconosce che Trump ha saputo dare voce e rappresentanza alla rabbia e al risentimento degli esclusi, cui invece la sorda élite del paese, identificata soprattutto nel Partito Democratico, non ha dato ascolto. Decenni d’impoverimento delle classi meno abbienti e del sistema industriale del paese hanno eroso la fiducia di molti nelle istituzioni. Di qui la profonda avversione nei riguardi di cosmopolitismo, multiculturalismo, libero commercio e immigrazione, che testimonia insofferenza per la politica democratica e rifiuto del globalismo. L’autore ricostruisce la situazione attuale notando come i democratici guardassero all’innovazione tecnologica e all’apertura internazionale del commercio, pensando illusoriamente che sarebbero bastati i settori tecnologici a tenere in piedi il paese.
È stato indubbiamente uno sguardo miope, con conseguenze che i democratici pagano ancora. Il centro di gravità per i ceti medi non esiste più: è caduta l’illusione occidentale che la transizione all’economia globale sarebbe stata ancora nelle nostre mani. Invece questo progetto è fallito e il risultato politico principale è stato la diffusione dei populismi e la proliferazione di varie destre sovraniste, alimentate dallo stato di insoddisfazione e frustrazione dei tanti spinti al margine della società dall’incedere della globalizzazione. I nuovi poveri sono affascinati dal richiamo identitario e alla ricerca della protezione dello stato contro le delocalizzazioni selvagge a favore dei paesi di nuova industrializzazione. Bersagli preferiti dalle nuove posizioni antiglobaliste, che si sono diffuse, sono da una parte i paesi vincenti della sfida globale, la Cina in primis, le organizzazioni internazionali e l’Europa. E ancora gli strali si dirigono verso immigrazione e ibridizzazioni, verso qualsiasi tipo di internazionalizzazione dei processi produttivi, così come ogni tentazione tecnocratica associata all’automazione del lavoro e alle macchine della quarta rivoluzione industriale.
Il flat world preconizzato con facilità e ottimismo come il terreno nel quale la globalizzazione avrebbe accresciuto la ricchezza di tutti si è rivelato in realtà assai più accidentato di quanto previsto. La fase di rilettura del trentennio della globalizzazione investe soprattutto noi occidentali, illusi all’inizio che la transizione all’economia globale ci avrebbe visto ancora protagonisti, quando invece ormai da anni gli economisti parlano apertamente di declino. Ci siamo presi una solenne sbornia guidati dalla convinzione di poter governare comodamente gli sviluppi della fine della guerra fredda negli anni Novanta. Sacerdoti di rito globalizzante, con grande inconsapevolezza ed entusiasmo, anche a sinistra, abbiamo scelto la strada dell’euforia economica. La classe media del mondo occidentale comincia a perdere le proprie certezze e muove verso un futuro drammaticamente incerto, che i tradizionali strumenti di governo delle democrazie liberali sono sempre meno in grado di plasmare. Sono spariti gli obiettivi comuni verso i quali singoli e società puntavano.
Tutto questo avviene all’interno dei paesi avanzati, attaccati dalla concorrenza portata praticamente in ogni settore dell’economia dai paesi emergenti e lacerati al proprio interno da una divisione netta fra chi gode dell’accumulazione di tecnologia, finanza e capitale umano e chi ne è privo. I colpevoli secondo il risorgente nazionalismo sono inevitabilmente quelli che occupano tronfi il gradino sopra, cioè chi ha vinto, e quelli che barcollano nel gradino sotto, gli ultimi degli ultimi che siano gli immigrati o comunque i dannati della terra, che si permettono di mischiarsi con noi nelle nostre città. L’incendio nazionalista svuota la democrazia e fa riascoltare l’eco delle sirene dittatoriali; le procedure liberaldemocratiche appaiono inutili riti formali incapaci di dare una soluzione concreta ai problemi della gente comune. Il sentimento di marginalizzazione, che l’estrema destra corrobora con campagne di odio, scatena l’aggressività nei confronti del prossimo, che non va soccorso neppure nel momento in cui rischia di affogare nel Mediterraneo. Il furore nazionalista, ispirato dalla recriminazione e dal risentimento iconoclasta, spinge verso tentazioni autoritarie più o meno mascherate all’interno di sistemi ancora formalmente democratici sempre più indeboliti e capaci di produrre anticorpi. La nostra democrazia liberale rischia di finire sotto scacco e il declino secolare è percepito da tanti come irreversibile.
In foto: Gary Gerstle