Paul Valéry è figura di accompagnamento non indifferente nel percorso teorico-estetico di Theodor Wiesengrund Adorno, all’interno del quale funge da cartina al tornasole, come un reagente che, al contatto con i nodi di sviluppo della riflessione teorico estetica Adorniana, ne visualizza i processi, ne segnala le fasi, i punti di svolta, le crucialità. Toccandoli, li esibisce. Vediamo subito quali sono queste tappe, le sequenze di tali svolte.
Prima fase, quella che abbraccia la riflessione Adorniana degli anni ’50.
Nel 1953, il filosofo tedesco tiene una conferenza presso il “Bayerischen Rundfunk”, poi pubblicata in forma di saggio sulla rivista “Merkur”[1], il cui spunto è offerto dall’edizione in lingua tedesca dello scritto di Valéry Degas Danza Disegno, comparsa presso la casa Editrice Suhrkamp nel 1951. Lo scritto Adorniano in questione è: L’artista come vicario, pubblicato, poi, in Note per la letteratura[2].
La seconda stagione di confronto con Valéry si apre con gli anni ’60 e si conclude con Teoria estetica, pubblicata postuma nel 1970, opera all’interno della quale il poeta francese è menzionato tra i pochissimi autori e pensatori chiamati da Adorno come interlocutori, come figure in dialogo, che lo accompagnano nel proprio cammino di messa a fuoco teorico-critica in ambito estetico.
In questa seconda fase, Valéry compare in modo significativo all’interno di uno scritto del 1960, Senza modello, frutto di un’altra conferenza tenuta al RIAS, alla radio del settore ovest di Berlino, il 24 agosto 1960, poi pubblicata da Adorno con la dicitura In luogo di Prefazione, in Parva Aesthetica (1967)[3]. Soprattutto, Valéry è interlocutore bifronte – progressivo/regressivo – all’interno di uno scritto del 1960: L’ago declinante di Valéry, pubblicato nel Nr. 1, anno LXXI della rivista “Die Neue Rundschau”, successivamente inserito in Note per la letteratura[4].
Questo, in breve lo scenario di apparizione di Valéry come cartina al tornasole.
La temperatura delle questioni visualizzate dal richiamo a Valéry in questa prima stagione Adorniana intorno agli anni ‘50 è riportata da un passaggio compiuto da Adorno all’interno della seconda lezione (13 Novembre 1958) del corso di Ästhetik, tenuto nell’AA. 1958-1959. Qui, Valèry è inserito nel novero di quegli artisti paradigmatici della “modernità”, i quali non solo sviluppano una riflessione immanente al proprio operare nel materiale artistico, ovvero, nella consistenza storica di tale materiale-linguaggio, ma, in primo luogo, portano il processo di riflessione al punto di sviluppo, per cui esso non è “più in alcun modo distinguibile dal processo di produzione artistico”[5]. hanno esperienza del materiale artistico nel quale lavorano e, nel far ciò, svolgono attività di riflessione, portandola a tal grado di intensità e sviluppo, da oltrepassare la zona di distinzione tra momento della produzione artistica e quello della riflessione. Adorno conclude così la propria riflessione: “Questo è un fenomeno tipico della nostra epoca. Penso, in tale contesto, come molti di voi avranno indovinato, a Paul Valéry”[6].
Dunque, al livello raggiunto in questa data dalle problematiche teorico-estetiche affrontate da Adorno, Valéry incarna il paradigma di una singolare tipologia di “doppio cervello”, per rielaborare l’espressione Nietzscheana[7], ovvero di chi, senza mai confondere ambito della riflessione e ambito della produzione, senza mai cedere al pericolo costituito dalla “pseudomorfosi” reciproca tra filosofia ed arte, individua i piani di convergenza, le urgenze comuni di pensiero critico e di attività produttiva artistica.
Al centro del saggio Adorniano su Degas Danza Disegno di Valéry si pone proprio questo “doppio cervello” costitutivo della modernità. “Le riflessioni di Valéry sulle quali vorrei richiamare l’attenzione – scrive Adorno – […] sono conseguite in virtù di quella vicinanza all’oggetto artistico, di cui è capace soltanto chi produce in estrema responsabilità”[8], ovvero, dell’artista-pensatore abbozzato nelle lezioni di Ästhetik del 1958-1959, di colui il cui modo di riflettere, il cui comportamento pensante costituisce modello di valenza generale per un pensare, il quale non si limiti ad essere esercizio di riflessione sulle cose, bensì prenda le mosse dalla sfida lanciata dallo stato in cui queste si trovano; un pensare che pensa micrologicamente in esse, nei processi, in un corpo-a-corpo con questi, sviluppando “buona universalità”, come Adorno nota in un passo centrale di L’artista vicario. “Valéry offre il caso quasi unico […] di colui che sa dell’opera d’arte attraverso il métier, il preciso processo lavorativo, in cui però questo processo contemporaneamente si riflette così felicemente che si capovolge in penetrazione teoretica, in quella buona universalità che non abbandona il particolare ma anzi lo conserva in se stessa e con la forza del proprio movimento lo spinge verso la normatività. Egli non filosofa sull’arte bensì, in adempimento monadologico del configurare stesso, spezza la cecità dell’artefatto stesso”[9].
Nella presentazione che Adorno qui offre di Valéry, due termini emergono in maniera particolare e tra loro connessa: Métier e “penetrazione teoretica”, i quali chiariscono cosa il filosofo tedesco intenda per produrre in “estrema responsabilità”. Il primo termine indica il possesso di una competenza messa in uso, fattasi pratica, o meglio, di una abilità che è mestiere ma, di un genere tutto particolare: ovvero, un mestiere nel quale i gesti sono innervati di pensiero, e costituiscono, nella scioltezza con cui essi operano senza incepparsi, il paradigma operativo in cui pensare-riflettere e fare si svolgono non in due tempi separati tra loro, bensì simultaneamente ed intrecciati l’uno nell’altro, esonerando il fare dei gesti dall’abitudine irriflessa e ripetitiva. In tale processo, inteso dal termine Métier, però, il riflettere critico, sedimentato nel fare, opera come se fosse di natura: con eleganza, al modo stesso del disegno-danza, di cui Valéry parla in Degas e riportato da Adorno. “L’artista avanza” ed indietreggia, appostandosi nella caccia al fenomeno; “si china, strizza gli occhi, si comporta con tutto il corpo come un accessorio dell’occhio, diventa tutt’intero un organo di mira, di punta, d’aggiustamento, di messa a fuoco”[10].
Si potrebbe dire, che la mente comincia nell’occhio incorporato nel disegnatore, il cui comportamento mimetico originario è costituito dal danzatore. È proprio sulla scia di tale unità di pensiero critico e produrre artistico, ovvero, di un pensiero interno al fare ed ai suoi nodi problematici, che si spiega l’altrimenti ardito avvicinamento compiuto da Adorno tra Paul Valéry ed il compositore Arnold Schönberg, il quale “nel suo ultimo libro Stile e idea sviluppa l’idea per cui la grande musica consisterebbe nella soddisfazione di obligations, di obbligazioni che il compositore sottoscrive per così dire con la prima nota”[11]. Pensiero il quale prosegue e sviluppa la convinzione Adorniana, espressa in Filosofia della musica moderna, secondo la quale l’artista, impegnato a lavorare nel materiale musicale, socialmente e storicamente sedimentato, “non è un creatore”, dal momento che l’epoca e la società in cui egli vive lo delimitano non “dal di fuori ma proprio nella severa pretesa di esattezza che le sue immagini gli pongono. […] Le composizioni non sono altro che risposte […], soluzioni a rompicapi tecnici”[12].
Seguendo questo filo di pensiero, la “estrema responsabilità” di cui parla Adorno, il peso che grava su questi uomini “moderni” – su Valéry come su Schönberg –, è quello di operare con un genere di abilità inedita, per così dire, una abilità-Métier nella quale il pensiero critico è presente “senza parere”: abilità altamente “responsabile”, nella quale il pensare non è attività aggiunta esternamente, bensì è divenuto abitudine e comportamento, immanente al processo; abilità il cui gesto è di natura linguistica, deliberata. In tal senso si spiega ulteriormente il significato di “operare con estrema responsabilità”. Agli occhi di Adorno, l’artista-pensatore Paul Valèry dà corpo ad una modalità di pensiero di tipo oggettuale, si potrebbe dire di natura gegenständlich, o, più precisamente, un pensiero che opera micrologicamente e vis-à-vis con i processi, prendendo le mosse dalla sfida gettata dal singolo processo agli universali: da ciò che si costituisce in stato “informelle”.
Le due istanze sono integrate in un passaggio centrale del saggio Vers une musique informelle (1961), all’interno del quale Adorno parla dei “migliori compositori progrediti”[13] – con validità estensiva per ogni genere di artista – come di coloro nei quali “vige unità di teoria e prassi”, delineando così, il profilo del pensiero che recepisce la sfida lanciata dal particolare alle invarianti “normativo-universali”. “L’amara fortuna del pensiero – scrive Adorno – è che esso, se merita il proprio nome, può pensare al di là di sé, che è capace di guardare oltre il proprio naso”[14].
Questa prima figura di Valéry proposta da Adorno si articola e si arricchisce all’inverosimile nella fase matura della riflessione del filosofo tedesco: quella che si chiude con Teoria estetica. Abbiamo già ricordato che, all’interno di questo scritto, il nome del poeta francese compare nella ristretta rosa degli interlocutori costanti e cruciali per il cammino teorico di Adorno: tra A. Schönberg, S. Beckett, L. Beethoven e G. W. Hegel, I Kant, l’imprescindibile W. Benjamin.
Forse un elemento può costituire punto di congiunzione tra le due fasi di impegno Adorniano intorno a Valéry, un punto di congiunzione che, però, porta al tempo stesso a luce anche gli spostamenti interni alle questioni teoriche, le diverse urgenze che inclinano l’asse di riflessione del filosofo tedesco in questa ultima fase del suo lavoro. L’elemento cui facciamo riferimento è la scelta compiuta da Adorno dell’appellativo “Artist” per trattare di Valéry sia nel saggio del 1953 – L’artista come vicario – che, molti anni dopo, in Teoria estetica (1969/70). Due sono, nella lingua tedesca i termini equivalenti ad “artista” in italiano: Künstler, lemma di origine medio-alta tedesca, e Artist, appunto, termine di discendenza latina[15].
Il primo intende colui che fonda il proprio modo d’essere artista sulle competenze, su di un sapere che egli esercita come professione, della quale domina le tecniche. Il secondo termine copre, invece, altre dimensioni, che Adorno ricorda in un passaggio importante dei Protointroduzione a Teoria Estetica. “Il nome di artista – si legge – è comune a chi si esibisce nel circo e a chi è quanto mai distolto dall’effetto propugnando l’idea temeraria secondo cui l’arte deve soddisfare puramente il proprio concetto”[16]. Cosa porta a luce, allora, il fatto di presentare Valéry come Artist? Ciò che Adorno intende rilevare in questo caso è che l’artista “moderno”, ovvero, l’artista-pensatore, il quale opera “con estrema responsabilità” riflettendo nel materiale artistico in cui opera, non termina il proprio “tour de force”, la propria “fatica della forma”, per usare la terminologia Adorniana, allorché ha prodotto un’opera d’arte “costruita fino in fondo”, senza alcun “punto morto” o “cieco”, “alcuna forma sentita come eteronoma”[17]. Arrestarsi a questo livello, vorrebbe dire non tener conto di quel fondo sorgivo di cui tutta l’arte è “rammemorazione”, ovvero, quel terrore su cui l’Artist circense spicca, invece, il suo volo, con fare da maestro.
Ancora una volta, il discorso torna sui gesti, sulla loro particolare natura linguistica; su una abilità non cieca e non sorda, ma usa, per così dire, all’ascolto di ciò che resta sempre oltre la forma, di qualcosa che insiste e resiste al suo ricomporsi nella forma. L’artista-pensatore è colui che sente questo resto, non lasciandolo fuori né, tantomeno, riducendolo ed imbrigliandolo nel tutto dell’opera. “Il tutto è il falso”, aveva scritto Adorno nel noto aforisma § 29 della parte prima di Minima Moralia. L’Artist Valéry conserva qualcosa dell’arcaico, inteso non come una dimensione empirica o storicamente data, bensì come il campo d’insorgenza della forma, come il non-identico e l’irriducibile, cui occorre rivolgere ascolto, al fine di elaborare un altro ordine del discorso, differente da quello del dominio, che rende tutto funzionale all’intero.
“Il tutto” è, appunto, il “falso”, e l’Artist, l’artista da circo che stupisce e solleva, per un attimo improvviso, dal terrore, dal brivido è colui che inceppa ed insidia con atto di deliberazione programmatica la signoria del soggetto su ciò che non è riducibile all’ordine della forma come tutto. Ecco l’attenzione donata da Adorno alle “Abweichungen”, alle deviazioni deliberate di Paul Valéry, ai Rhumbs dei quali si tratta nel saggio sul poeta-pensatore francese del 1960 – Valérys Abweichungen, tradotto non efficacemente in italiano con L’ago declinante di Valéry –, ovvero, a quel percorso di ascolto verso ciò che è altro, non-identico, al materiale che deve non esser ridotto all’uniformità del tutto, all’omofonia.
Questo ordine negativo ed inverso del linguaggio rispetto alla lingua del dominio è quello che congiunge in Adorno la riflessione su Valéry con la Dialettica negativa in cui si afferrano, nella differenza, arte e filosofia. Senza alcun cedimento alla pseudomorfosi, ovvero, a quel processo di assimilazione dell’uno nell’altra, “il concetto filosofico non rinuncia alla nostalgia, che dà vita all’arte come non concettuale”, si legge nella Introduzione a Dialettica negativa; in quanto “organo del pensiero ed insieme muro tra questo e ciò che si deve pensare”, il concetto “nega quella nostalgia”; la filosofia non può fare altro; suo è, però, “lo sforzo di giungere, tramite il concetto, oltre di esso”. È questo “oltre” ciò cui l’arte è vicina, come nel caso dell’Artist Valéry.
Un passo di Teoria estetica è a questo proposito illuminante, quello in cui Adorno afferma che “i grandi componimenti epici […] ai loro tempi erano mescolati con notizie storiche e geografiche”, ovvero con la scena sorgiva che è non arte; “l’artista Valéry [der Artist Valéry] ha messo a fuoco quanto nei poemi omerici, come in quelli pagani germanici e in quelli cristiani, ci sia di non fuso nella legalità della forma, senza che ciò abbia reso il loro rango inferiore rispetto alle creazioni prive di scorie”.
L’arte è “tour de force” tra momento pre-linguistico e momento costruttivo[18], fatica di una forma che vive delle “deviazioni” deliberate, di cui è maestro Valéry, le quali increspano la forma, come un’onda su cui soffia il vento.
In foto: un particolare di “Ballerine alla sbarra” di Edgar Degas
[1] Il testo della conferenza radiofonica compare, originariamente, in “Merkur”, VII, 1953, 11. Nello stesso anno, Adorno dedica a Valéry un altro saggio: Valéry, Proust e il museo, poi raccolto in: Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino Einaudi, 1972, pp. 175-188, la cui edizione in lingua tedesca, presso Suhrkamp, è del 1955.
[2] Theodor W. Adorno, Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, vol. I, pp. 109-120, la cui edizione in lingua tedesca, presso Suhrkamp, risale al 1958.
[3] Theodor W. Adorno, Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, a cura di Roberto Masiero, Milano, Mimesis, 2011. Adorno aveva originariamente pubblicato il saggio in “Neue deutsche Hefte”, Nr. 75 dell’ottobre 1960.
[4] Theodor W. Adorno, Note per la letteratura I, cit., pp. 151-190. Sulla natura sempre doppia, come un vero Giano bifronte, posseduta ai suoi occhi da Valéry, Adorno si esprime in un passo del saggio in questione in cui si legge: “Ma soltanto dai momenti reazionari si può ricavare quello che in Valéry spinge verso il progresso. Infatti nei suoi libri il progressivo e il regressivo non sono distribuiti ma il progressivo viene strappato al regressivo, trasformando in proprio slancio la forza di gravità di quest’ultimo” (cit., p. 154)”.
[5] Theodr W. Adorno, Ästhetik (1958-1959), a cura di Eberhard Ortland, Frankfurt/M., Suhrkamp, 2009, p. 32.
[6] Theodr W. Adorno, ibidem.
[7] Come noto, l’espressione è coniata da Friedrich Nietzsche in Umano, troppo umano I, nell’aforisma § 251, in cui egli parla della necessità operativa di un “doppio cervello”, dotato di “due camere cerebrali” distinte: “una per sentirci la scienza, un’altra per sentirci la non scienza”. La necessità di una coesistenza di tali camere – “separabili, isolabili” tra di loro ed operanti senza “confusione” ed intrusione nel campo dell’altra – è per Nietzsche funzionale al mantenimento del “piacere” per la scienza, per quel sapere che “getta il sospetto sulle fonti di consolazione”, rischiando di far impoverire il piacere umano per il sapere. La formulazione Nietzscheana non coincide con l’utilizzo che noi qui facciamo di tale espressione.
[8] Theodor W. Adorno, L’artista come vicario, cit., p. 111.
[9] Theodr W. Adorno, ivi, p. 112.
[10] Paul Valéry, Degas Danza Disegno, in: P.V., Opere scelte, a cura di Maria Teresa Giaveri, Milano, Mondadori, p. 839,
[11] Theodor W. Adorno, L’artista come vicario, cit., p. 116.
[12] Theodor W. Adorno, Filosofia della musica moderna, a cura di Luigi Rognoni, 1959, Torino, Einaudi, pp. 43-44
[13] Theodor W. Adorno, Vers une musique informelle, in: Th. W. A., Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-1965, a cura di Gianmario Borio, Torino, Einaudi, 2004, p. 237.
[14] Theodor W. Adorno, ibidem.
[15] Su questi aspetti si è soffermato in modo lucido ed articolato Giovanni Matteucci nel suo contributo: “Der Artist Valéry nella teoria estetica di Adorno, “Aisthesis”, anno V, Nr. I, 2012, cui rinviamo.
[16] Theodor W. Adorno, Teoria estetica, tr. it. e cura di Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci, Torino, Einaudi, 2009, p. 255.
[17] Theodor W. Adorno, Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, a cura di Roberto Masiero, Milano, Mimesis, 2011, p. 77.
[18] Su questi aspetti resta imprescindibile lo studio di Elena Tavani: L’immagine e la misessArte, tecnica, estetica in Theodor W. Adorno, Pisa, ETS, 2012, in particolare pp. 123-141.