Più soffocante di qualsiasi crisi, più debilitante di qualunque altra dieta, più inevitabile di qualsivoglia film americani di disastri, una condanna incombe su di noi; si erge all’orizzonte come il pianeta Melancholia nell’allegro film di Von Trier, ci blocca l’orizzonte, ci dipinge un futuro pari pari a quello dei film del dopobomba. E non è il futuro radioattivo promessoci da “The Day After” (visione obbligatoria alle medie: poi dice come mai siamo depressi, oggi), e nemmeno la solita fiaba ecologica in cui finiamo tutti a mangiare la Panatine perché avremo abbattuto l’ultimo albero e pescato l’ultimo pesce, come ci jettano generazioni di capi indiani alcolisti morti. No: quello che ci riserva davvero il futuro è l’essere inglobati da una cordigliera himalaiana di monnezza, oceani di olio frusto, dorsali di pannolini abusati e di incarti di formaggi, di gastronomia e di polli formato famiglia, di maelstrom di offerte speciali di supermercati, inaugurazioni di negozi, blocchi di biglietti di circhi e volantini di imbianchini a prezzi modici. Davanti a casa vostra con ogni probabilità sono installati non meno di 5 differenti contenitori, per vostra comodità in placida attesa di essere pluriquotidianamente nutriti, come totem babilonesi, con le vostre offerte sacrificali; di volta in volta umido, carta, plastica, vetro, latta e tutta quella rantumaglia di confine che nessuno in effetti sa in che ambito possa essere fatta rientrare. Le scatole Tetrapak, ad esempio? Non sono né metallo, né plastica, né carta. Sono una specie di temibile razza ibrida che, di Comune in Comune, cambiano destinazione a seconda di quali contratti l’Amministrazione abbia sottoscritto con le ditte che si occupano della raccolta e, soprattutto, dello smistamento. La latta delle lattine? A volte nel vetro, a volte un contenitore apposito, a volte direttamente nell’umido con tutto il contenuto, visto che ci ostiniamo a comprare il tonno in 2×3 quando di quelle scatolette ce ne serviva solo una. Ah già, pardon: non latta, acciaio. Vale a dire che per lavorarlo di nuovo bisogna anzitutto separarlo dal vetro, de-smaltarlo, lavarlo, triturarlo, fonderlo e di nuovo stamparlo: giusto per parlare di uno dei casi più felici di possibile riutilizzo, e come si vede non è uno scherzo e non è detto che sia così economicamente valido il recupero. Con buona pace di tante campagne sulla differenziata, contenitori, utenti, distribuzione, società e amministrazioni semplicemente non sono né sufficientemente preparati, né organizzati per gestire in maniera appropriata tali dinamiche. Gli sfalci? Nell’umido, ma anche nel cassonetto apposito, ma anche no; se ce ne sono troppi non c’è mercato per essi, se ce ne sono pochi, neppure; l’umido va separato minuziosamente, nella plastica ogni cosa va valutata, pesata e lavorata nel modo giusto, e così via, spese su spese. Mentre l’utente, brava formichina, quando è educato separa meticolosamente il pattume, per poi vedere gli operatori cacciare tutto nello stesso cassone e chi s’è visto s’è visto: e mentre tu recuperi la lattina degli sgombri per salvare l’ambiente, a 100 metri da casa tua la lavanderia riversa nelle acque chiare dieci ettolitri di solventi. Tutto ciò mentre i cassonetti sono posizionati sui marciapiedi e sulle ciclabili per essere pratici per la raccolta, gli utenti buttano i materassi nel torrente per ovviare agli orari di raccolta del centro per il rusco ingombrante, i camion della nettezza imballano il traffico dalle ore 7 alle ore 17 per non uscire ad orari antelucani e non pagare troppi straordinari; e tutto ciò mentre una spesa del peso medio di 20 Kg è capace di essere costituita da non meno di 3 Kg di imballi tra carta, metallo e plastica, che vanno a costituire grosso modo un quarto del volume totale che deve pur essere stoccata in qualche modo, più tardi. L’unica speranza viene dai Paesi del Nord che, in assenza di fonti energetiche alternative ed economiche, dopo tanti documentari sulla nostra invidiabile situazione a gran voce chiedono, implorano che noi gli si venda il nostro prezioso pattume: al che noi, una volta tanto in condizioni di contrattare, rispondiamo a quei fastidiosi primi della classe, quegli insopportabili snob: NO. Tzé.
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