Duemiladuecento chilometri partendo da Cordoba, la docta, passando per Salta, la linda, arrivando a San Salvador de Jujuy, la tacita de plata. Voltandosi, attraversare San Miguel de Tucuman, el jardin de la Republica, e ritornare verso Cordoba. La docta.
Fernando provato dalla giornata di lavoro, alla guida del suo Kangoo e io, felice come un bambino, nel posto del co-pilota. Durante i viaggi notturni il dialogo non conosce sosta. Ci raccontiamo delle nostre vite. Io faccio milioni di domande su quello che andremo a scoprire nel Nord Ovest argentino. Anche per lui è la prima volta.
Dopo sette ore di guida spegniamo il motore alle tre di notte nella regione di Santiago del Estero, a Las Termas de Rio Hondo. Tutti dormono, ad eccezione dei giocatori del folgorante Casino del Sol: tra un bicchiere ed una sigaretta, scoppiano in qualche grassa risata. Ci fermiamo nel primo hotel che vediamo illuminato. Non gli diamo nemmeno il tempo di presentarsi che già siamo stesi lungo il letto.
Ci svegliamo rigenerati, pronti per addentrarci nella Selva Tucumana. Sulla via ci lasciamo alle spalle parecchi piccoli paesini, pueblos come li chiamano qui. La caratteristica che accomuna villaggi, città di medie e grandi dimensioni è la quantità impressionante di cani randagi che ciondolano per le vie. Quando ci si avvicina ad un qualunque centro abitato lo si capisce proprio dalla loro presenza.
Ora si sale. Il verde intenso della vegetazione rigogliosa, reso così scuro da nuvole basse miste a nebbia, la fa da padrona. Tra un tornante e l’altro irrompe davanti a noi el Chasqui, un enorme guerriero indio pietrificato e a braccia aperte. Nella mano sinistra stringe una lancia. Sembra quasi che protegga quella foresta subtropicale e sconsigli di proseguire per la Ruta trecentosette. Adesso siamo nel cuore pulsante della selva. Una leggerissima pioggia batte sul parabrezza.
Di colpo cambia lo scenario tutt’intorno: nebbia e nuvole, pioggia e verde, si fanno da parte costringendoci a ricercare un po’ d’aria da respirare. Siamo sulla linea che separa la provincia di Tucumán da quella di Salta, a circa duemila metri di altitudine. Il paesaggio è brullo, spoglio, senza alberi, con qualche cespuglio solitario. Le auto lasciano fitte scie di polvere dietro di loro. Ai lati della strada qualche gringo dalla pelle ambrata galoppa verso quelle montagne laggiù in fondo, ferme, spavalde, che nessuno può permettersi di sfiorare. Le Ande.
Decidiamo per una breve sosta a tremilaquarantadue metri sul Mirador de l’Infernillo in compagnia di Coco, un mansueto lama andino. A lui il forte vento pungente non lo preoccupa minimamente. Guarda stranito attraverso i suoi occhi neri i pochi turisti che si divertono a fotografarlo. Ci rimettiamo alla guida giù per quella montagna dalla forma di collina, entriamo nella provincia di Salta e facciamo tappa a Cafayate per la notte.
Credo sia domenica mattina. Oggi guiderò io lungo la Ruta sessantotto. Nei quasi duecento chilometri che ci separano da Salta, veniamo prima circondati dai dolci saliscendi dei vigneti, poi lentamente il sole sembra avvicinarsi donando alle rocce circostanti un colore rosso fuoco. La vallata sulla nostra sinistra è incantevole. Facciamo una breve sosta sotto un cartello che recita: “Para el que mira sin ver, la tierra es tierra no mas. A. Yupanqui” . Alle sue spalle un sinuoso filamento d’acqua costeggiato da una flora piatta ma vivace trova spazio tra le focose rocce che lo dividono da un cielo imbottito d’azzurro.
Dobbiamo raggiungere la Quebrada di Purmamarca prima del tramonto. Attraversiamo velocemente Salta e San Salvador de Jujuy in direzione Tilcara. Svoltiamo a sinistra su un sabbioso sterrato dove un cartello indica la nostra prossima meta. Avanziamo lentamente in mezzo alla precordigliera. Sotto di noi da un lato la Ruta nove, il ramo argentino della famosa Panamericana e dall’altro sta lì, fermo, un piccolo assembramento di case, tutte dai tetti piatti e bassi che hanno preso il colore della terra. Dritto davanti a noi una collina rocciosa alquanto singolare: el Cerro de los siete colores. Viola, rosa, grigio, verde, arancione, bianco e marrone sono le tinte a strisce orizzontali facilmente distinguibili sulla parete. Sono il prodotto di una complessa storia geologica di sedimenti lacustri, fluviali e marini di oltre seicento milioni di anni fa.
Prima di riprendere la strada verso sud, ci sgranchiamo le ossa tra le bancarelle del mercato indio di Purmamarca. È un posto pieno di persone ma silenzioso, solo il vento soffia vigoroso. I nativi del luogo lavorano senza parlare: cappello sugli occhi e sguardo basso che si intravede appena. Si respira un’aria strana e affascinante, quasi magica. Ad ogni passo si rischia di interrompere il precario equilibrio formatosi nel corso di decenni tra Indios e Ande. Qua l’impressione è che si parli un’altra lingua.
Passiamo la notte a Salta. In ostello ci accoglie un signore robusto sulla cinquantina. Mi dice di avere studiato scienze politiche a Roma. Usciamo in strada, nella via c’è una gran movida: giovani ben vestiti aspettano in fila ballando la musica elettronica di un boliche (discoteca), tanti piccoli ristorantini condiscono il menu con la música folclórica tipica della regione, i tabacchini rimangono aperti tutta la notte vendendo sigarette sfuse a bambini da quinta elementare…
Io e Fernando ci guardiamo intorno. Decidiamo per un ottimo asado e vino tinto salteño. Parliamo entusiasti del nostro viaggio e ci prepariamo ai novecento chilometri di domani.
L’ultimo pensiero della giornata mi fa tornare a Purmamarca, alla semplice tranquillità della sua gente. Nelle orecchie il baccano disordinato delle strade di Salta.