“Aporofobia”: chi disprezza i poveri disprezza sé stesso

Si tratta di immaginare città accoglienti e un mondo a misura d’uomo

La sfida è quella di «liberare il mondo da antinomie insensate e ormai svuotate, ma che cercano di prendere il sopravvento nel razzismo, nella xenofobia, nella disuguaglianza, nello squilibrio ecologico e dell’aporofobia, questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”». Queste parole che papa Francesco ha pronunciato domenica 28 aprile scorso, parlando agli artisti nella prima visita di un pontefice alla Biennale d’Arte di Venezia, si sintonizzano perfettamente con il messaggio lanciato dall’Opera di Santa Croce di Firenze con la comunità dei Frati Minori Conventuali martedì 23 aprile con la giornata di dialogo dal titolo La povertà, una realtà antica e nuova. «Dietro a queste antinomie – ha continuato il Papa – c’è sempre il rifiuto dell’altro. C’è l’egoismo che ci fa funzionare come isole solitarie invece che come arcipelaghi collaborativi». E concludeva, lanciando a sua volta un appello proprio agli artisti: «Vi imploro, amici artisti, immaginate città che ancora non esistono sulla carta geografica: città in cui nessun essere umano è considerato un estraneo. È per questo che quando diciamo “stranieri ovunque”, stiamo proponendo “fratelli ovunque”».

Ecco il punto: si tratta immaginare città accoglienti e un mondo a misura d’uomo, immaginare relazioni di fraternità proprio lì dove il mondo costruisce barriere, sospetti e separazioni. E il punto di partenza non possono che essere i poveri, gli ultimi: solo partendo da loro, infatti, si può davvero essere certi che nessuno rimarrà escluso, abbandonato, scartato. E che per raggiungere questo ci sia bisogno dell’arte e degli artisti, papa Francesco l’aveva suggerito già in apertura dell’enciclica Laudato si’, quando avvertiva che «se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza l’apertura allo stupore e alla meraviglia [testimoniata da san Francesco], se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati» (LS 11).

Un grande lavoro di immaginazione e di creatività nel segno di Francesco d’Assisi, per uscire dalle precomprensioni e dagli standard insensati che ci bloccano e che stanno portando il mondo verso derive gravissime e forse irreversibili: potrebbe essere questa la cifra della giornata di S. Croce. Con una forte presa di coscienza che sarebbe bello potessero ascoltare soprattutto i più giovani: non c’è tempo da perdere! Mettere i poveri al centro, invece di escluderli: come ha fatto notare Stefano Zamagni, uno dei relatori che ha parlato a S. Croce, la tradizionale idea capitalistica che i poveri sono tali perché se lo meritano – un concetto che si nasconde anche dietro la tanto esaltata “meritocrazia” – è non solo sbagliata, ma soprattutto pericolosa e violenta. Non è vero che sviluppando il libero mercato i poveri diminuiscono, accade esattamente il contrario. Sono le “strutture di peccato” – concetto profeticamente introdotto da san Giovanni Paolo II che devono essere combattute ed eliminate, i meccanismi per i quali, come accade proprio oggi, i ricchi divengono sempre più immensamente ricchi e i poveri sempre più scarti da eliminare.

Bene ha fatto, allora, il vescovo Felice Accrocca, uno dei più fini studiosi di san Francesco e del francescanesimo, a far risuonare nella bellissima ambientazione del Cenacolo di S. Croce, gli appelli dei padri della Chiesa, da Basilio a Gregorio Magno: il superfluo è un furto, tutto quello che io possiedo in più deve essere restituito. Un concetto antico, ma che il concilio Vaticano II, ribadendo la destinazione universale dei beni, ha ripreso quasi in modo letterale, perfino amplificandolo: «L’uomo, usando dei beni creati, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo. Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui» (Gaiudium et Spes 69).

Coordinati da Paolo Ermini, cui si deve la sapiente tessitura della giornata, hanno preso la parola, insieme ai citati Zamagni e Accrocca, anche Cristina Acidini, Enzo Ciconte, Franca Maino, Maria Stella Rognoni, Federico Fubini e Ferruccio De Bortoli, con contributi di grande livello che hanno saputo ampliare l’orizzonte della riflessione dalla povertà raccontata nell’arte alla lettura della coscienza comune di oggi, dalla situazione del continente africano alle disuguaglianze sempre crescenti che feriscono la società contemporanea. Una riflessione da proseguire con grande determinazione e da estendere possibilmente alle scuole e alle università, in modo da contribuire, come ha affermato Giulio Conticelli concludendo l’incontro, a passare «dall’angoscia alla speranza, attraverso la riflessione razionale e il sentimento religioso».

Alessandro Andreini della Comunità di San Leolino

in foto il Cenacolo di Santa Croce a Firenze

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