Nell’ultimo Dpcm del Governo non sono state applicate ulteriori restrizioni agli eventi espositivi, sebbene il clima in cui operano gli organizzatori sia quello di una sorta di “navigazione a vista”, come ha sottolineato nella nostra ultima intervista l’assessora alla Cultura di Reggio Emilia signora Annalisa Rabitti (vedi qui l’articolo: https://www.7per24.it/attualita/sbrocdown-bavaglio-alla-cultura/ ).
Abbiamo incontrato il direttore di Palazzo Magnani, Davide Zanichelli, per raccogliere le sue impressioni sul difficilissimo momento che le attività artistico – culturali stanno vivendo a causa della pressione esercitata dalla crisi pandemica.
Direttore Zanichelli com’è la situazione sul fronte delle vostre attività in corso e in programma?
Non sono al momento subentrate limitazioni in più; mostre e musei sono aperti secondo le norme preesistenti. Ci muoviamo però con molta cautela perché sappiamo di essere a rischio. Se ci dovesse essere una nuova stretta sulla mobilità, le prime altre realtà a chiudere sarebbero quelle che qualcuno definisce le “meno utili”, come biblioteche, musei e sale espositive. Noi abbiamo due mostre incorso: a Palazzo Magnani “True Fictions” e a Palazzo da Mosto “Atlanti, ritratti e altre storie”.
C’è l’obbligo di prenotare gli ingressi?
No, volendo si può telefonare preventivamente, ma le condizioni sono gestibili. In ogni sala c’è una specifica capienza massima indicata che peraltro è inferiore quella di cui potremmo avvalerci e il personale sorveglia che tutto sia rispettato: mascherina, distanziamento, sanificazione delle mani e degli ambienti…
Il 28 novembre apriremo ai Chiostri di San Pietro una personale di Olimpia Zagnoli nelle sette sale che l’anno scorso ospitarono la mostra sull’Ornamento. Cerchiamo di rimandare le spese legate alle scadenze fino all’ultimo momento, nel caso qualcosa dovesse saltare, ma la macchina organizzativa va avanti e siamo attenti a raccogliere tempestivamente tutte le informazioni che ci riguardano.
La sua posizione rispetto ai contenuti dell’ultimo Dpcm che ordina la chiusura di Teatri e cinema qual è?
Ritengo questa decisione tecnicamente inutile, perché va a colpire un settore che aveva già messo in atto tutte quelle disposizioni che servivano a renderlo sicuro. Il ministro Franceschini afferma l’esigenza di limitare gli spostamenti legati a motivi di svago e non a necessità di salute, lavoro, esigenze familiari. È chiaro che se noi consideriamo la cultura come un valore al di fuori della “necessità” il provvedimento non fa una piega, ma afferma un paradigma che intende la cultura come un optional, come un di più, un lusso per certi versi. È un assunto, questo, contestabile anche in termini pragmatici visto che, stando ai dati pubblicati nel 2019, in Italia la cultura coinvolge 416.000 imprese, incide con un 6,8% sul totale delle attività economiche e, nel 2018, il settore è cresciuto di 4 miliardi di euro rispetto al 2017. Anche gli occupati sono in crescita, dell’1.5%: sono 1.150.000 addetti. A questo bisogna aggiungere poi l’indotto. Ogni evento necessita di servizi accessori, polizze assicurative, fornitura di materiali e via dicendo. Da questo punto di vista emerge una concezione abbastanza miope nel provvedimento.
C’è chi peraltro afferma la non utilità di questo comparto di attività come “bisogno” fra le priorità del momento.
Ciò che non è sicuro è tutto quanto sta intorno, gli spostamenti, i mezzi pubblici, ma a maggior ragione adesso ritengo necessario affermare la non surrogabilità dell’esperienza artistico – culturale attraverso per esempio il mero utilizzo di tecnologie virtuali. Esistono anche differenze territoriali che andrebbero considerate: per esempio nei piccoli centri non ci sono metropolitane, gli spostamenti serali sono più autonomi da parte del pubblico e non vedo perché cinema e teatri con afflussi che erano già contingentati possano essere meno sicuri di bar e supermercati.
La cultura, numeri alla mano e “pensiero alla mano”, è un settore più che necessario. Dopo di che noi dobbiamo adeguarci alle normative e cercare di dare contenuti alla nostra offerta nei termini normativi possibili, che sono emergenziali, anche instaurando collaborazioni con altri soggetti del territorio impegnati nelle attività artistico – culturali.
Eppure si levano voci che esortano ad anteporre una sorta di pragmatismo drastico anche dall’interno degli ambienti culturali.
In questi momenti di emergenza, in cui accelerano e si estremizzano aspetti negativi come altri virtuosi dell’organizzazione sociale e del pensiero, è inevitabile la tentazione di creare percorsi di serie A e di serie B. Attenzione perché il pericolo è poi che ci si dimentichi di certe cose. Farle successivamente tornare a essere importanti fra le priorità della comunità civile, nella comune percezione, può essere molto difficile. Il Covid ha accelerato delle tendenze, quelle virtuose come i vizi e i difetti, attecchendo su scenari che già non erano così positivi: la cultura in Italia ricava pochissimo in donazioni liberali rispetto per esempio alla sanità, perché quest’ultima tocca aspetti sensibili e gravi nell’immediato della realtà personale. Se investi in cultura, il ritorno è nel lungo periodo, ma questo è un atteggiamento molto pericoloso, perché come si ammala il corpo fisico delle persone, anche il corpo sociale si può ammalare in assenza di cultura e formazione e questa non è una criticità meno grave da cui guardarsi.
Palazzo Magnani: qual è l’identità attuale delle vostre scelte in termini di proposta progettuale?
Abbiamo avuto una svolta tre anni fa, di discontinuità e di forte accelerazione, entrando in progetti che prima erano totalmente in capo al Comune di Reggio. Penso a Fotografia Europea, a una parte consistente della programmazione di Restate (dove quest’anno siamo riusciti addirittura a moltiplicare il numero di appuntamenti in calendario).
Sempre tre anni fa abbiamo siglato una convenzione con la Fondazione Manodori per gestire le mostre a Palazzo da Mosto, struttura ora completamente recuperata, che ha già ospitato oltre a Fotografia Europea eventi su Zavattini e Manfredi. Di fatto abbiamo cambiato pelle, la Fondazione è uscita dalla sua sede fisica e gestisce a geometria variabile e in collaborazione con altre istituzioni come I Teatri e la Fondazione Nazionale della Danza, un’offerta culturale che utilizza altre sedi come anche i Chiostri di San Pietro, la Reggia di Rivalta, ecc. Siamo di fatto il player principale della città per quanto riguarda l’arte visiva.
Un secondo obiettivo è stato di costruire progettualità internazionali, come la collaborazione con l’Ermitage, che ha già portato due risultati importanti: il prestito che abbiamo fatto loro del manoscritto di Piero della Francesca per una mostra a S. Pietroburgo, al quale ha fatto riscontro il prestito alla nostra città del Ritratto di giovane donna del Correggio che abbiamo potuto esporre ai Chiostri di San Pietro. Avremmo dovuto ospitare tre autori russi per Fotografia Europea, ma è tutto rimandato al 2021. La Russia sarà paese ospite e alcune mostre saranno curate da Dimitri Ozerkov, il responsabile dell’arte contemporanea per l’Ermitage.
Sempre con loro e la Fondazione Nazionale della Danza di Reggio, stiamo organizzando un’ulteriore esposizione che sarà dedicata alle influenze fra l’arte visiva e i coreografi nel corso dei secoli e con un occhio particolare al Novecento. Salvo imprevisti, aprirà nel novembre del 2021 e poi andrà a San Pietroburgo.
Agite a cavallo di ambiti espressivi mi pare anche…
Sì, il terzo pilastro della svolta è stata infatti l’interdisciplinarietà come logica progettuale, ricordo ad esempio tre produzioni realizzate con la Fondazione Danza; nella prima del 2018 fra il coreografo Saul Daniele Ardillo e un pittore catalano che vive a Reggio: Jorge Pombo. Poi, per Fotografia Europea, il progetto “Infinito” del fotografo Toni Thorimbert portato da Aterballetto anche in altre città e un altro ancora dedicato alla fragilità del corpo dal fotografo Jacopo Benassi, realizzato con un atleta paraolimpico che entrava in interazione con un danzatore. Anche in questi casi quindi una contaminazione-collaborazione con un sistema territoriale che esprime delle eccellenze di primissimo ordine.
A chi può rivolgersi questa nuova impostazione culturale della Fondazione?
Stiamo cercando di mettere a sistema delle relazioni con un mondo che possa ricevere dalle nostre attività una serie di leve, di benefici e strumenti utili al proprio specifico. Ad esempio verso tutto ciò che ruota attorno all’educazione, ma anche alla salute. Penso al progetto con le Farmacie riunite e le cooperative sociali che si occupano di fragilità minorile “Reggio senza barriere”, o al progetto sull’Alzheimer con Reggio città delle persone e l’Asp: con la preziosa guida di Palazzo Strozzi abbiamo formato quaranta operatori che, ogni volta che realizziamo una mostra, ricevono degli input per elaborare percorsi a favore degli anziani, attività che continua anche in questa fase, a distanza.
Il fatto di poter gestire una pluralità di iniziative e di luoghi ci mette nelle condizioni di fare da stimolo verso un mondo associazionistico e privato nuovi rispetto al passato. Siamo aperti a costruire percorsi di progettazione culturale e artistica insieme a partner che possono averne un ritorno positivo non solo a livello di immagine, ma come valore aggiunto nelle proprie esigenze e ricadute positive per il territorio. Penso al welfare aziendale, a convenzioni con imprese i cui dipendenti possono accedere alle mostre in modo privilegiato; a percorsi di formazione dedicati a esplorare alcuni temi organizzativi e del coaching che trovano nella mostra un luogo ove svilupparsi in modo originale e nuovo. Le aziende e la cultura possono oggi entrare in rapporto in modo diverso dalla semplice sponsorizzazione, secondo criteri di progettualità condivisa e sinergica.