Firenze – Ho conosciuto Nico Naldini (Casarsa 1/3/1929- Treviso 9/09/2020) a San Vito al Tagliamento, uno dei suoi luoghi del cuore oltre che di Pierpaolo Pasolini, suo cugino. Mi fu presentato in occasione di una manifestazione culturale e fui invitata a prendere con lui un aperitivo. Fui presentata in qualità di «dantista» e Naldini allora non ebbe parole che per Dante.
Egli esordì giocoso e irridente e mi chiese di parlare di Brunetto Latini. Non ricordo le parole esatte ma ricordo bene il ragionamento. La presi da lontano e comincia col considerare il ruolo che Brunetto Latini svolge nella Commedia: quello di maestro. In quanto volgarizzatore di Cicerone, inoltre, egli fu protagonista eccellente dell’innesto tra letteratura e tradizione retorico -giuridica. Continuai con il dire che trovavo intrinsecamente comico il dialogo tra Dante e Brunetto nel quindicesimo canto dell’Inferno (If XV, 97). Nell’incontrarlo tra i sodomiti, Dante si rammarica che il maestro non sia ancora vivo e sia stato «de l’umana natura posto in bando» (If XV, 81): la perifrasi gioca ironicamente con il vocabolo «natura» e con la dichiarazione appena successiva nella quale Dante afferma che nella sua mente è invece indelebile («fitta») «la cara e buona imagine paterna» (If XV, 83) che gli ha insegnato «come l’uom s’eterna» nella gloria intellettuale e nella fama civile.
Ed è proprio Brunetto, nelle vesti di maestro di “eternità terrena”, ad esortare Dante a distinguersi dai suoi concittadini sanza legge «gente avara, invidiosa e superba» (If XV, 68): «Da’ loro costumi fa che tu ti forbi» (If XV, 69). Ascoltava Naldini con un sorriso accennato sulle labbra e sfilati gli occhiali neri che gli coprivano il volto, guardandomi finalmente, commentò: – “interessante…”; e incalzandomi, provocatorio, aggiunse: ma allora gli omosessuali sono tutti all’Inferno?”. – “Non è in questi termini che dobbiamo ragionare” -, risposi. – “Brunetto è soprattutto un maestro. Questo è il vero problema per Dante. Posto che i due giusti di Infenno VI, 73 («giusti son due e non vi sono intesi») siano la legge naturale e la legge positiva, con buona pace della critica dantesca precedente, il notaio ser Brunetto Latini, nella sua funzione civile di maestro di legge e di retorica, è punito per non aver praticato quel che ha insegnato. Per questo nella Commedia egli è l’anti modello di eternità terrena la cui colpa maggiore è quella di aver insegnato con le parole quel che ha negato con le opere. Per questo egli procede nella bolgia infernale con il volto girato nella direzione opposta al senso di marcia, incapace di vedere la strada almeno quanto gli «orbi» concittadini che condanna di avarizia, invidia e superbia (If XV, 67). Nel suo ruolo di maestro di retorica e di etica civile, Brunetto è l’emblema del cattivo maestro ed è questa la sua colpa esemplare”.
Nico Naldini sorrideva divertito più che persuaso e con libertà cominciammo a parlare d’amore e dei poeti del Purgatorio ed io gli fui grata per aver abbandonato quella tenzone. Non entrammo nel merito di quel che Dante fa dichiarare alle anime dei poeti lussuriosi del Purgatorio e cioè che il loro peccato fu «ermafrodito» ed è sottoposto alle fiamme del Purgatorio non per questo ma piuttosto perché quell’istinto fu sottomesso alla ragione (Pg XXVI, 82). Tutti i commentatori moderni parafrasano il neologismo «ermafrodito» con «eterosessuale» e tuttavia i commenti antichi alla Commedia spiegano diversamente. Ad esempio l’Ottimo commento (1333), definito così dagli Accademici della Crusca, spiega che «Ermafrodi[t]o è colui, che hae amendue nature, masculina e femminina; sì che peccarono in amendue spezie di lussuria; ed ancora fecero peggio, che l’usarono bestialmente». La storia di Ermafrodito è di per sé poetica e Ovidio la racconta nel quarto libro delle Metamorfosi: egli nasce dalla fusione alchemica dei corpi di Venere e Mercurio ed è perciò capace di vivere l’amore fisico con gli attributi dei due generi. Una storia straordinariamente poetica quella di Ermafrodito.
Ed è facile passare da questi argomenti a quelli della poesia erotica di Nico Naldini nella quale rivive l’eredità culturale e letteraria di Pierpaolo Pasolini, così come ha affermato Francesco Zambon nella post-fazione di «Piccolo Romanzo Magrebino» (Guanda, 2016). Il suo testamento più bello, per quel che posso giudicare io, è il “Sermone in tre parti”, componimento con il quale si conclude il «Piccolo Romanzo magrebino». Ogni parola e ogni immagine del tripartito componimento zampilla dalla tradizione poetica precedente. La poesia non è una strada, piuttosto una scala. E se per Montale «forse è scala a Dio», e per Zanzotto, suo grande amico, è piuttosto una «mozza scala di Jacob», per Nico Naldini è l’unica scala possibile verso un altrove i cui gradini, un tempo di carne, sono monumenti alla memoria che ardiscono di superare il tempo: Solo si mise in cammino / per riflettere le riarse gioie / che convolavano al suo cuore. / Non era una strada ma una scala / e a ogni gradino si ergevano / le statue del momento./ […] C’era / di che riflettere perché solo / poche stradicciole menavano /agli estremi collegamenti / col Reale.