Anni ’70, da Massimo Papini un percorso fra Guccini e Berlinguer

Firenze – Cinquant’anni fa  iniziavano i tumultuosi, discussi, rimpianti anni ‘70 densi di storia politica, di  cambiamenti degli stili di vita, di innovazioni tecnologiche, di fiducia nel progresso ma  anche –con la critica alla società dei consumi – dei primi interrogativi sulla sostenibilità dello sviluppo.  

Massimo  Papini nel recente libro “Tra Guccini e Berlinguer. Gli anni Settanta dei giovani tra storia e memorie”,  affronta  tematiche di questo decennio ma ci riporta anche emozioni, sensazioni in un percorso che è ,al tempo stesso, personale e generazionale

Tra l’altro  constatiamo in questo libro che gli anni Sessanta si prolungano nel decennio successivo, in una sorta di continuità nel segno progressivo.  Per questo dopo “Tra Dylan e Marx” l’autore è stato sollecitato alla seconda puntata, proprio sugli anni Settanta, sempre con un occhio particolare ai giovani. Anche in questo caso frammenti di storia generale si mescolano con frammenti di storia personale. Il tempo libero, la musica, il cinema, la letteratura rendono meno serioso l’inevitabile primato della politica. Così le note dei cantautori di sovrappongono alle parole di speranza che provengono dalla carismatica figura di   Enrico Berlinguer. Abbiamo cercato  di ripercorrere con  Massimo Papini alcuni  temi di questo suo nuovo lavoro. 

D. Perché  la svolta della fine anni 70 non fu  solo politica ma anche culturale e antropologica?

R. Gli anni settanta sono stati in qualche modo egemonizzati dai valori del progressismo sociale, del  primato del collettivo sull’individuale, dalle diverse riforme realizzate in diversi ambiti, seguendo il fine del bene comune; in sostanza valori propri dei cattolici e delle sinistre. Non è un caso che i due veri partiti italiani, di massa, con un consenso elettorale molto elevato, fossero la Dc e il Pci. Nel decennio successivo la riscoperta dell’individualismo si traduce invece in carrierismo, rampantismo, edonismo, ecc.. Dagli hippies si passa agli yuppies. Per quanto si scoprano nuovi ambiti di intervento di tipo progressista, come l’ecologia, il femminismo, ecc.. il nodo essenziale è che la felicità personale non sta più nella maturazione culturale, civile e nell’impegno per gli altri, i più deboli in primis, ma sta nei successi individuali, sia nel lavoro come in economia, sia nel tempo libero, liberato dall’intellettualismo e dalle remore moralistiche propri del decennio precedente.

D. Musica  e cinema   due fils rouges   di questo testo …. negli anni ’70   avevano anche una valenza politica ?

R. Sicuramente. Nella musica si trae la lezione del beat degli anni sessanta, del folk rock, di Bob Dylan e il tutto si traduce poi in versione italiana. E’ il compito che si assumono i cantautori, studiando sui manuali dei folk singer che li hanno preceduti. Il linguaggio può essere un po’ ermetico e surreale (in tal senso De Gregori è davvero dylaniano) oppure narrativo esistenziale, con una residua influenza dei chansonniers (come per De Andrè, prima del sodalizio con Bubola)  o entrambe le cose, come per Guccini, che, per di più, è emiliano, per cui assorbe anche la lezione della tradizione popolare. Nel cinema vi sono tanti generi, ma in Italia spicca il film politico, con registi come Elio Petri e con attori come Gian Maria Volontè. Ma anche l’altra America esprime una contro tendenza che si esprime in film “anticonformisti”: dal genere western con la riscoperta della purezza originaria delle popolazioni primitive dei pellerossa, a quelli più attuali incentrati sulla condanna delle manovre nascoste della Cia o del potere politico.

D. Perché la scelta di  Guccini e Berlinguer come figure emblematiche ?

R. Per un giovane, come me, che vive gli anni settanta tra i 20 e i 30 anni, quindi tra l’esperienza universitaria e le prime esperienze lavorative e di impegno politico, vi è un’attenzione particolare per la musica “impegnata” (e quindi i cantautori) e per la politica di sinistra. Per questo dovendo trovare due figure che rappresentino questi due mondi, è venuto abbastanza facile scegliere i nomi di Francesco Guccini e di Enrico Berlinguer.  Il primo canta i dubbi, le ansie e le aspirazioni dei giovani, mentre il secondo offre loro speranze concrete in un mondo migliore, liberate dall’utopismo del sessantotto, anche se ancora alcuni vedono in lui l’ostacolo del moderatismo alla “rivoluzione”..

D. Un’altra figura di alto profilo fu Moro .. si capiva allora quanto fosse  innovatrice la sua visione politica ?

R. Sì, la sua visione politica appariva innovatrice in quanto aperta, disponibile al confronto. Certo, per molti giovani, era pur sempre un democristiano, ma in fin dei conti si trattava di una minoranza. Del resto la sua lungimiranza si era già manifestata nei primi anni sessanta, con l’avvento del Centro sinistra. Magari con lentezza e prudenza, con la volontà di non dare spazio alla destra e quindi portandosi dietro tutta la Dc (e non solo la sinistra interna), però aveva portato l’Italia a una svolta decisiva. Negli anni settanta è sempre lo stesso Moro. Ora la strategia dell’attenzione è rivolta al Pci. La novità “morotea” è che per avere una democrazia normale il Pci deve essere legittimato a governare. Un’esperienza comune di governo era la tappa necessaria per una successiva democrazia dell’alternanza. Moro non era filo comunista (per quanto stimasse Berlinguer), anzi, riteneva che la Dc fosse alternativa al Pci, ma negli anni settanta i rischi di involuzione caotica (con tanto di terrorismo) rendeva necessaria una fase collaborativa.

D. Ha scritto che  negli anni ’70 eravamo  complicati o meglio complessi.  In che senso ?

R. Complicato è un intreccio di problemi di non facile soluzione ma che hanno in fondo una sola risposta. Si può faticare a dipanare la matassa (come un rebus) ma al termine la persona complicata si ritrova semplificata e non molto diversa da prima. Agli occhi esterni nasconde il suo volto vero, ma dietro la maschera non vi è molto da scoprire.
Complesso è pur sempre un miscuglio, un insieme di cose che possono essere anche molto semplici, ma che insieme generano qualcosa di nuovo e completamente diverso, da cui a volte non sai cosa aspettarti. Le risposte finali possono essere diverse e imprevedibili. Una persona complessa è colei che nasconde molte facce diverse tra loro, che cerca le soluzioni meno immediate ai propri problemi, che usa soprattutto l’intelligenza per uscirne migliore.

D. Oggi  cosa resta di quegli anni ’70  nella memoria collettiva ?     

R.  Non resta quasi niente. Tengono ancora alcune riforme, come la legge sul divorzio, ma molte altre sono rimesse in discussione. Le stesse conquiste delle donne, per quanto in apparenza intoccabili, vanno incontro  a continue minacce nei pregiudizi sessisti che trovano nuova cittadinanza grazie ai social e allo sdoganamento di un qualunquismo di massa ottuso e reazionario. Anche sul piano culturale vi è poco spazio per il cinema “impegnato” o per la musica di qualità, propri di quegli anni. Per non parlare dei valori sociali e politici, allora di segno progressista, pur nelle divisioni e le contraddizioni dei movimenti che a quei valori si richiamavano. Il progresso appare complesso, per cui si preferisce la semplificazione qualunquistica. Al cervello si è sostituita la pancia.

D. I  grandi partiti di massa avevano allora un ruolo assai più incisivo nei  confronti dei loro iscritti e del loro elettorato…. quale il suo giudizio  ?

R. Sin dalla rinascita postbellica la convinzione diffusa era che la democrazia si reggesse sui partiti di massa. Vi era la sensazione che occorresse ripartire dal primo dopoguerra , quando alle prime elezioni (1919 e 1921) i partiti popolari (cattolici e socialisti) riscossero un vasto consenso. Quella strada fu inibita sul nascere dall’avvento del fascismo. Ma in qualche modo lo stesso regime mussoliniano aveva creato un sistema basato sul partito di massa (per quanto unico e quindi antidemocratico). Così dal 1946 in poi i tre maggiori partiti italiani (Dc, Psi e Pci) caratterizzarono a lungo la vita democratica. Ciò fu dovuto anche alla forte ideologizzazione della vita politica e quindi della radicata fedeltà elettorale, che se da un lato bloccava il sistema politico, dall’altro offriva stabilità e continuità al sistema democratico. Col tempo la stessa opposizione non si sentì emarginata, ma contribuì al processo riformatore del paese. Il culmine di questo processo lo si raggiunge negli anni settanta.

foto copertina da https://it.wikipedia.org/wiki/Sessantotto

 

 

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