Firenze – Quali forze devastanti si contrappongono alla vitalità e alla forza di una donna creativa? Che cosa la spinge giorno dopo giorno verso l’abbraccio fatale con il nulla eterno? Uno spazio interiore popolato di fantasticherie o forse no, di ricordi, che non le permettono di assaporare il valore della vita completa di una storia d’amore, due figlie e la sua attività letteraria.
Questa è Anne Sexton, scrittice e poetessa di successo nella grande America.
Nel libro ”Dio nella macchina da scrivere” , Editore La Nave di Teseo, Irene Di Caccamo riscrive in prima persona la vita della scrittrice statunitense, rivela in modo magistrale come le qualità letterarie della Sexton si confondono con la malattia in una battaglia spietata. La vita contro la morte.
“Nella sua casa (della sua vicina) ora per la prima volta ho la certezza che mi procurerò io la mia morte, vedo anche la fine e i gesti che l’accompagnano. Non ho mai pensato a nulla di così preciso e ho una stana euforia”.
E poi ancora: “È meglio che faccia qualcosa di costruttivo piuttosto che stare lì a pensare di uccidermi… Mio marito a un certo punto si avvicina e mi dice qualcosa che non capisco perché sono troppo su di giri, poi prende le mie figlie e le porta via anche loro non vogliono lasciarmi, vedo che hanno gli occhi spauriti. Io le amo, io le spavento. Mi divora la vita”.
Un’alternanza di momenti depressivi con attimi di intensa creatività, un dolore e piacere che si sovrappongono in una soluzione di continuità. Anne Sexton lotta fin dalla gioventù con la sua malattia, acuita talvolta da crisi di abbandono, opponendosi con terapie psichiatriche e facendo uso di psicofarmaci. Una vita costellata di ricadute e tentativi di suicidio, mentre i rapporti con il marito, le figlie, i suoi amici, tra cui Maxine Kumin e Sylvia Plath, diventano sempre più contrastanti e difficili.
Solo i suoi scritti sostengono la parte meno delirante di se stessa:
“Mi aggiro tra i poeti ora con lo sguardo esterrefatto, in fondo anche molti di loro sembrano scappati dal lettino dell’analista proprio come me”.
Il libro è un concentrato di emozioni allo stato puro, come in un gioco di specchi, la parte positiva non può fare a meno di quella negativa:
“Sono chiusa da giorni in questa casa, ma se penso al fuori so che ho il terrore dei negozi, delle persone e delle scelte da fare, delle costipazioni intestinali, delle case vuote e anche degli spazi aperti. Cos’altro? Come nasconderlo? C’è il sole fuori dalla finestra”.
Ci sono le notti piene di parole libere, gli amanti, le paure e le ansie, l’amore per le sue figlie e la sensazione costante di non essere all’altezza delle sue responsabilità.
“Solo quando scrivo mi sposto e vedo l’altra parte di me che sono io. Rileggo i miei versi, schegge impazzite. Raggiungo il mio dottore, a lui dico. -Per morire e cercare il suicidio bisogna che io sia viva. E io lo sono solo se scrivo-”.
Cosciente del suo tempo e delle sue possibilità negate, vive il successo come piccole isole di gioia nel mezzo delle difficoltà giornaliere della malattia mentale a cui le darà un epilogo drammatico:
“Batto i tasti della macchina da scrivere a vuoto, tutta la mattina e senza poter fare altro. Mi rendo conto che l’antidepressivo che prendo non è una cura, non guarirò mai con la scrittura e su questo ha ragione mio marito, la depressione rende soltanto sterili e io ho buchi di memoria continui, e poi non so neanche come si chiama la mia malattia. I farmaci non sono una risposta a quella che sono”.