Correva la fine degli anni ’80: lo scrivente vergò un editoriale per il defunto quindicinale “L’idea”, periodico clandestinamente allegato (nel senso che il proprietario del giornale, cioè il vescovo non lo sapeva) al settimanale diocesano “La Libertà”. Si intitolava “Il minotauro e l’araba fenice” e cercava di rompere, proprio sul settimanale della Chiesa, il silenzio su una Dc reggiana divisa in due (Castagnetti e Bonferroni) e sul non senso, a Unione sovietica in dissoluzione, di un partito di cattolici militanti. Anzi di un partito cristiano tout court. Quel pezzo da giovane cronista ancora illuso che il libero dibattito pagasse, in termini di lettura e cultura, gli costò l’estromissione dalla redazione ecclesiastica per cui lavorava. Il che, col senno di poi, fu un bene. “Il minotauro e l’araba fenice” era una presa di posizione fortemente anti-andreottiana. Proprio in chiave di coerenza Vangelo-vita pubblica.
Per contestualizzare: l’uscita carbonara dell’Idea fu decisa per arginare l’inevitabile censura (siamo agli inizi dell’episcopato di Paolo Gibertini, a fresca dipartita dunque del vescovo Gilberto Baroni cui probabilmente quel pezzo non sarebbe poi dispiaciuto troppo). I numeri successivi dell’Idea videro la presenza quasi fissa in redazione (uno stanzino del seminario dove già operava il compianto don Gigi Guglielmi con la sua scuola di musica diocesana per la liturgia) di un eterogeneo gruppo di persone, ciascuna in rappresentanza di un’anima dell’allora mondo cattolico reggiano. Una sorta di micro-Parlamento per la stesura di articoli. Possiamo citare l’unico passato a miglior vita: l’altrettanto compianto don Vittorio Chiari. Gli altri sono tutti vivi e vegeti (alcuni tuttora piuttosto vendicativi) e quindi, per sintonizzarci col Divo Giulio, scatta l’omissis. Per farla breve, la neonata “Idea” durò ancora pochi, via via normalizzatisi numeri poi spirò. Lo scrivente venne cacciato dalla Libertà (paradossale) e cominciò a porsi domande sempre più serie sul rapporto fede e vita e relativa ipocrisia. L’insegnamento era che i panni sporchi si devono sempre lavare in famiglia e i problemi ficcati sotto al tappeto, in attesa dell’oblio. Guai parlarne, specie se ci riguardano
Non che il giudizio dello scrivente su Andreotti sia cambiato (poveretto, nel caso dell’Idea non c’entrava niente, così come ebbe a dire in una delle sue fulminanti battute, nemmeno con le Guerre Puniche) ma è cambiato il grado comparativo sotto cui inquadrarlo. C’è stato un qualcosa di epico, senza accezione di giudizio, nella storia di molti uomini politici della Prima Repubblica l’ultimo granello della cui clessidra con la morte di Andreotti ha di fatto toccato il fondo biologico. Fecero scelte epocali per l’Occidente mentre oggi i loro corrispettivi non riescono ad accordarsi sull’abolizione del Porcellum, si barcamenavano tra Dio e Satana così come oggi i corrispettivi quaquaraquà si dividono tra twitter e facebook, affrontavano a testa alta simil-processi di Norimberga mentre oggi, pur di sfuggire alla sbarra, si mandano certificati attestanti l’uveite. Insomma dei giganti, anche nel male.
Le contraddizioni ideali e comportamentali di Giulio Andreotti, comprese tra la Messa quotidiana e il bacio a Totò Riina, rappresentano la scomparsa di una generazione politica, specie di marca democristiana, che ha scritto davvero la biografia di questo Paese. Nei suoi capitoli conosciuti come nei suoi paragrafi misteriosi. Perché, parafrasando una delle sue battute agghiaccianti, la storia logora chi non la fa. Paragonatelo a un Berlusconi, a un Bersani, a un Grillo o a un Monti. Immaginate lui davanti alla Merkel, invece del prono uomo bocconiano, citare la sua profezia più riuscita: “Amo talmente la Germania che ne preferivo due”