Amministratori giudiziari, le difficoltà di chi gestisce i beni confiscati alla mafia

Per questi professionisti è difficile anche ottenere i compensi dovuti

L a questione delle condizioni dei professionisti che, per conto dello Stato, si occupano dell’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati alla mafia, è questione che presenta molte criticità e riguarda ben 3.700 professionisti iscritti a un Albo speciale, titolari di competenze approfondite e certificate, il cui compito è quello di reimmettere nel circuito legale i beni sottratti alla criminalità organizzata. Compito non facile, dal momento che spesso devono sopperire a gestioni che peccano di varie carenze da parte dello Stato nuovo proprietario.

A mettere il focus sulle condizioni di questi professionisti, preziosi e indispensabili allo Stato e alla collettività , è Cristiana Rossi, amministratore giudiziario esperta in gestione di aziende, curatore fallimentare, revisore legale, consulente tecnico d’ufficio del Tribunale civile e delle imprese e della corte d’Appello di Roma.

Qual è esattamente il ruolo di un amministratore giudiziario?

“Nel momento in cui l’Autorità Giudiziaria dispone il sequestro di un patrimonio ai sensi del Codice Antimafia nomina un amministratore giudiziario al quale affidare detto patrimonio. Ciò si rende necessario poiché il soggetto colpito dalla misura – detto proposto – viene completamente spossessato dei diversi beni che costituiscono il patrimonio di provenienza illecita o frutto di reimpiego. L’ Amministratore giudiziario è quindi colui che si occupa della gestione di tali beni – ad esempio immobili o aziende – custodendoli nelle more del giudizio di prevenzione. Egli amministra – su incarico dell’Autorità Giudiziaria e sotto l’attenta
vigilanza della stessa – diverse categorie di beni: ad esempio beni immobili, beni mobili registrati, preziosi, quote societari e perfino aziende. Ne deriva quindi l’alto livello della sua formazione professionale – si tratta difatti di avvocati o commercialisti specializzati – dovendo operare in multidisciplinarità e grande tempestività. È altresì colui che intrattiene e gestisce i rapporti sì con l’Autorità giudiziaria, ma anche con i soggetti sottoposti a misura e a volte anche con il loro legali, e – nel caso di aziende – con i dipendenti, con i fornitori, con i clienti, con gli istituti di credito, con la pubblica amministrazione in genere (pensiamo
all’Agenzia delle Entrate compresa la Riscossione, l’INPS, l‘Ispettorato del Lavoro, oppure i diversi uffici amministrativi del Comune – ad esempio – in caso di specifiche autorizzazioni). L’errore è pensare che sia un libero professionista e che non sia in grado di sostituirsi all’imprenditore. Entrano qui in gioco – sempre nel caso di aziende – le capacità personali dell’Amministratore giudiziario che nello svolgere l’incarico ricevuto deve abilmente gestire trovando un punto di equilibrio tra la gestione della procedura giudiziaria, quindi i rapporti con il giudice delegato ed il tribunale, le esigenze aziendali bilanciando il suo intervento
pur mantenendo il timone sempre impostato sulla rotta della legalità, nonostante i continui ed incisivi tentativi del proposto stesso e/o di soggetti ad esso più o meno direttamente collegati, ed il livello di infiltrazione sia all’interno dell’azienda stessa che nel territorio/settore ove essa opera”.

Quali sono le principali criticità che dovete affrontare in questa attività?

“Come appena accennato, le criticità sono molteplici e legate ai più diversi fattori. Ne cito qualcuna tra le maggiori, anche se ogni procedura presenta le sue difficoltà e le sue problematiche. Sicuramente le maggiori criticità si incontrano nella gestione delle aziende. Quando si subentra all’imprenditore il clima che si respira nelle aziende è di grande ostilità nella maggior parte dei casi. Si tratta di aziende che vivono grazie all’attività economica esercitata nella quasi totale assenza del rispetto delle diverse normative, ed inoltre è sovvenzionata da proventi illeciti in esse riciclati, che garantiscono la sopravvivenza della stessa sul mercato e soprattutto riescono a garantire il posto di lavoro alle persone che
ne hanno bisogno. Per tale ragione l’intervento dello Stato non viene accolto favorevolmente poiché interrompe bruscamente i cicli produttivi ed economico-finanziari attuati all’interno della stessa da tempo già rodati”.

Una criticità in un certo senso, a quanto si comprende dalla sua spiegazione, del tutto fisiologica, vista la natura e le modalità di gestione del bene confiscato, anteriormente alla confisca stessa. Ma in seguito, come vanno le cose?

“Con grande, grande dispiacere devo rilevare anche le criticità inerenti la gestione dei rapporti con la PA poiché non tutti i settori della stessa sono poi così specializzati e formati su questa normativa, che è molto tecnica. Ad esempio nelle piattaforme software in uso all’Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Entrate Riscossione ed INPS, non viene prevista una casellina apposita per specificare la carica di amministratore giudiziario e ciò fa sì che l’impiegato che opera – in modo erroneo – utilizzi il codice fiscale personale dell’amministratore giudiziario per sostituirlo con quello dell’imprenditore anche nel caso di società di capitali – come è accaduto a me con l’Agenzia delle Entrate Riscossione e con l’Inps. Tale soluzione decisamente errata, crea enormi difficoltà al professionista- persona fisica, che spesso si vede aggrediti i propri beni personali per debiti maturati da questi soggetti ed erroneamente attribuiti a lui. Eppure ci vuole molto poco per superare queste problematiche, e la formazione unita alla collaborazione, ma soprattutto alla volontà di risolvere, potrebbero veramente fare miracoli! Insomma, la PA ancora oggi ci identifica come un nemico senza comprendere che stiamo lottando tutti e due dalla stessa parte condividendo lo stesso obiettivo”.

E sotto il profilo della procedura che accompagna la confisca fino all’assegnazione del bene?

“Anche questo punto è problematico, almeno per quanto riguarda la mia esperienza. Si tratta, per la precisione, della gestione della procedura dalla fase di confisca di secondo
grado fino alla conclusione della fase di destinazione dei beni, che il Codice Antimafia affida all’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (altrimenti detta Agenzia Nazionale oppure ANBSC). Secondo la mia esperienza, l’Agenzia Nazionale non soltanto è sotto dimensionata, ma anche non adeguatamente organizzata poiché risponde in modo assai lento ed inefficace nella gestione delle problematiche sollevate dal coadiutore. In sostanza – come rilevato dalla Sezione controllo della Corte dei Conti – sono elevati i contenziosi con i professionisti incaricati dell’ufficio di coadiuzione poiché l’ANBSC non provvede a liquidare e pagare i
compensi loro spettanti e stabiliti di legge ex D. P.R. N. 177/2015, recante proprio le disposizioni di calcolo dei compensi degli amministratori giudiziari (e per analogia di funzioni, dei coadiutori dell’ANBSC). La stessa Corte dei Conti ha rilevato come le continue impugnazioni tendono a dilatare i tempi ed in caso di vittoria del coadiutore dovranno essere corrisposti anche interessi e rivalutazione da calcolarsi su compensi che non sono proprio irrisori. Afferma la stessa Corte dei Conti la sussistenza innegabile del diritto al compenso
del coadiutore per le prestazioni professionali svolte, ma rileva soprattutto come l’ulteriore costo generato dalle impugnazioni a mio parere dilatorie dell’ANBSC generano ulteriori costi – interessi e rivalutazione, appunto – che gravano inevitabilmente sull’intera collettività . Inoltre aggiungo che siamo esposti, sia in qualità di amministratore giudiziario sia in qualità di coadiutore, a querele spesso infondate e pretestuose allo scopo di rivalsa e di disturbo, promosse dai soggetti coinvolti nelle procedure”.

Il paradosso più inquietante rimane tuttavia la possibilità che avvenga “confusione” fra oneri del bene confiscato e amministratore giudiziario. Può spiegare come accade?

“E’ una domanda molto interessante. A mio parere ciò accade per mancanza di professionalità e di formazione. Ribadisco questa è una materia molto tecnica e specifica, e nel formare il personale di qualsiasi grado, la PA spesso non coinvolge i professionisti specializzati. L’amministrazione giudiziaria dei beni – siano essi sottoposti a sequestro o confisca – coinvolge tante, tantissime discipline e tanti soggetti, per tale ragione l’amministratore giudiziario coordina una quadra di professionisti che possiedono le
competenze adatte per quel tipo di patrimonio in quel particolare contesto. Non è sufficiente aver il titolo. Serve un bagaglio ben fornito di competenze unito ad altrettante intuizioni che si acquisiscono soltanto in anni e anni di procedimenti.
Ad esempio in tema di contratti d’appalto, io ho riscontrato molto interesse da parte dei responsabili unici di progetto in occasione di alcune docenze da me svolte in seguito a specifiche richieste.

Sembra che in buona sostanza si tratti di una questione di poca trasparenza da parte dell’Agenzia nazionale dei Beni confiscati e in particolare, come spesso accade in Italia, di una mancata condivisione di dati fra apparati statali diversi. Quale potrebbe essere, se c’è, una soluzione per evitare situazioni paradossali come da lei descritte?

Sì, spesso non c’è comunicazione tra apparati dello Stato, ma soprattutto non c’è una buona conoscenza della normativa antimafia. Molte persone che lavorano nella PA non conoscono neanche la figura del curatore fallimentare, figuriamoci quella dell’amministratore giudiziario. Ciò che manca è una formazione specifica che sia però in grado di fornire il corretto punto di vista, la corretta visuale della normativa stessa che consenta di collaborare costruttivamente con l’Autorità Giudiziaria attraverso la costruzione di una sinergia più concreta e costruttiva con l’amministratore giudiziario.

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