Il 7 gennaio 2013 reggiano, commemorazione numero 216 della nascita della bandiera tricolore, verrà ricordato (concetto forte e pretenzioso) come il definitivo suggello all’avvenuto distacco tra il comune sentire della gente e l’autocelebrazione retorica delle autorità in chiave di perpetuazione di un potere rappresentativo morente e al collasso. Il colpo d’occhio in piazza Prampolini, in sala Tricolore e per finire al teatro Ariosto non ha lasciato adito a dubbio alcuno: oltre alla solita pletora di amministratori, politici e rappresentanti interforze e religiosi, la società civile locale ha brillato lucentemente per la sua cristallina assenza. Che siamo ormai in numero maggiore i mantenuti di Stato (in senso letterale) rispetto a coloro chiamati a mantenerlo?
A parte pochi anziani, con un po’ di tempo libero da pensione, e un gruppo di studenti obbligati dalle maestranze, i luoghi della commemorazione rituale erano vuoti in modo imbarazzante; e soprattutto, fatta eccezione per quelli comunali, nessun vessillo tricolore, dicasi nessuno, ha osato sventolare tra le mani ingenue e casomai speranzose di qualche cittadino. Nemmeno la tutto sommato buona disponibilità del ministro Anna Maria Cancellieri (portavoce di un governo che non c’è più) è riuscita nell’impossibile impresa di alzare la giornata oltre la soglia di una intollerabile liturgia civile. La netta impressione a fine giornata, avuta da chi (come noi) ha dovuto sorbirsi fino all’ultimo le vuote tiretere cispadane era proprio questa: una non meglio precisata spesa pubblica impegnata per permettere ai soliti noti di finire una volta in più sulle prime pagine dei giornali nazionali in nome della tradizione. Cui probabilmente loro stessi sono i primi a non credere più. Insomma l’unico che al vessillo pare crederci ancora è lo splendido vecchietto, arzillo quasi 90enne Otello Montanari. Che ha fatto del Tricolore, è il caso di dirlo, la bandiera della seconda parte della sua vita.
Meglio allora sarebbe stato prendere il corrispettivo dei soldi investiti per l’organizzazione e l’immane cordone di sicurezza e farlo convergere sul reimpiego lavorativo giovanile e accontentarsi di un momento storico-celebrativo molto più austero e coerente; allora sì (forse), qualche cittadino sarebbe tornato a riavvertire la vicinanza di uno Stato burocratico e autospendaccione alle proprie esigenze ed urgenze. E ci perdonino l’irriverenza i tanti vogliosi militari che, comunque pagati dallo Stato, erano in piazza a cantare l‘inno di Mameli.
Già, l’inno di Mameli: avreste dovuto sentirli gli amministratori, i politici, gli investiti di cariche pubbliche ecc. ecc. cantare stonatamente all’unisono quelle parole così impegnative e sacrificali: “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. No vossignorie: qui gli unici morti che restano sul campo della crisi non siete voi ma gli italiani costretti al martirio in nome del bilancio di una Repubblica che, così come concepita, non ha più senso alcuno. Né liberale, né democratico, né politico, né di futuro né tanto meno di mercato. Per non parlare dei colori che i valori della nostra bandiera dovrebbe rappresentare.
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