Alluvioni in Emilia: cosa fare per ridurre il rischio idrogeologico

Una politica strutturale contro la pericolosità dei luoghi

L’Italia è un paese caratterizzato da una vasta gamma di pericoli naturali. La sua morfologia, la sua ricca idrologia (7500 corsi d’acqua con 1200 fiumi quasi tutti a carattere torrentizio) e la sua costituzione geologica rendono la gran parte del nostro territorio instabile e la gran parte delle nostre città esposte a rischi continui e di diverso tipo.

Questa naturale pericolosità si è accompagnata, e purtroppo ancora si accompagna, ad una distorta azione antropica che nell’arco degli ultimi 70 anni ha teso a urbanizzare il territorio nazionale passando dal 2,3% del costruito pre-1950 all’8.3% di oggi peraltro occupando, senza alcuna attenzione, anche aree alluvionali e franose. Il tutto senza o con scarse difese preventive e quindi con conseguenze distruttive sia in termini di vite umane che di danni a edifici, infrastrutture e beni culturali.

Gli effetti del Cambiamento Climatico in atto, già oggi rilevabili ma ancora più rilevanti nei prossimi decenni, non fanno che acuire la pericolosità del paese. Sia incrementando la frequenza dei cosiddetti eventi eccezionali sia acuendo l’intensità dei fenomeni.  

La politica per la mitigazione del rischio.

Una politica contro il rischio idrogeologico deve tener conto di tutte e tre le componenti che concorrono al tasso di rischiosità di un territorio e di una comunità.

Come è noto il rischio è dato da una composizione fra pericolosità dei luoghi, tasso di esposizione al pericolo e capacità di risposta della comunità e del territorio agli eventi (vulnerabilità).

COMPONENTI DI RISCHIO E POLITICHE DI INTERVENTO

PERICOLOSITA’INTERVENTI STRUTTURALIOPERE DI PREVENZIONE O DI CONTENIMENTO
ESPOSIZIONEINTERVENTI URBANISTICIGESTIONE AUTORIZZAZIONI E OPERAZIONI DI DELOCALIZZAZIONE
VULNERABILITA’INTERVENTI NON STRUTTURALIALLERTE, CONOSCENZA PIANI DI EMERGENZA, OPERE DI DIFESA INDIVIDUALI E COLLETTIVE

Il fattore ritenuto più importante in una politica di mitigazione è quello relativo alla pericolosità. Abbattere la pericolosità di un luogo, sia in termini di frequenza che di intensità dell’evento, sta alla base di ogni politica di mitigazione del rischio. Si tratta di interventi che puntano a prevenire o contenere le frane, a controllare e gestire le piene dei fiumi e ad evitare le esondazioni in aree urbanizzate. Si tratta, nel caso del rischio alluvione, di fare casse di laminazione artificiali, di costruire dighe di contenimento delle piene e scolmatori, di aumentare la “spugnosità” delle città al fine di trattenere il più possibile le acque di pioggia ed evitare gli oramai famosi “flash floods” urbani che con sempre maggiore frequenza si abbattono sulle città italiane.

Di particolare importanza è anche l’esposizione al rischio. Appare evidente infatti che a fronte di uno stesso fenomeno franoso o esondativo, diverso è l’effetto a seconda della quantità e anche della qualità dei soggetti e degli oggetti esposti all’evento. E’ chiaro che la limitazione dell’esposizione richiede in primo luogo una politica di prevenzione realizzata attraverso una sana politica urbanistica tesa a non invadere luoghi naturalmente ad alto rischio. Ma in Italia questa politica, che oggi è sostenuta sia a livello politico istituzionale che di opinione pubblica, è oramai tardiva. E al massimo sono possibili politiche delocalizzative ma con enormi difficoltà amministrative e con elevati costi economici e sociali. L’esposizione si definisce in due modi: l’esposizione fisica e l’esposizione economica. L’esposizione fisica ci parla di m2 di edificazione o di infrastrutturazione sottoposta al rischio. L’esposizione economica tiene invece conto della qualità dell’esposto che è diversa da luogo a luogo e da infrastruttura a infrastruttura. In una valutazione di analisi costi benefici di una politica di mitigazione occorre tenere in considerazione l’esposizione economica oltre che l’esposizione fisica.

Ed infine occorre considerare la vulnerabilità di un luogo e di una comunità all’evento. Qui occorrono interventi non strutturali che puntano su due direttrici. La prima è quella di elevare il tasso di conoscenza e informazione della popolazione sugli eventi sia in fase di prevenzione, e quindi di preparazione, sia in fase di gestione dell’emergenza, e quindi di allertamento e comportamento durante l’evento. Si tratta di strumenti che servono moltissimo ad abbassare il rischio della popolazione a parità di pericolosità degli eventi. Di particolare importanza sono la conoscenza strutturale dei rischi del proprio territorio, la messa a punto di un sistema di allerta tempestivo e trasparente ed infine la conoscenza dei Piani Comunali e Protezione Civile, oramai realizzati in tutto il territorio nazionale, ma perlopiù sconosciuti alla gran parte dei cittadini. La seconda direttrice riguarda invece i sistemi, individuali o di gruppo, di autodifesa dagli eventi. E qui le modalità possono essere di diverso tipo: dalle difese individuali degli edifici o delle attività economiche alla gestione di gruppo di determinate strumentazioni o azioni. Il tutto mirato a creare nel proprio ambiente una “ulteriore resilienza privata” rispetto a quella garantita dagli interventi pubblici.

La politica di mitigazione del rischio non è quindi solo una politica di intervento sulla pericolosità dei luoghi. Ed anzi siamo in grado di affermare che spesso, specialmente nel caso di perdita di vite umane, sono proprio gli interventi “non strutturali” che, se ben gestiti da una comunità e coordinati con le istituzioni pubbliche, riescono ad abbassare notevolmente la gravità e la frequenza dei danni alle persone.

La politica strutturale contro la pericolosità dei luoghi

Mitigare la pericolosità dei luoghi rimane comunque un elemento prioritario della lotta contro il rischio da dissesto idrogeologico del paese. Le città, le infrastrutture, le fabbriche e i beni culturali sono disposti per lo più in aree critiche per cui una politica “difensiva” appare oggi ineliminabile. L’Italia è in forte ritardo sul bisogno di difese dei diversi territori. Per troppo tempo alluvioni e frane si sono susseguite in lungo e largo nel paese sollecitando interventi emergenziali e al massimo di ripristino dei luoghi. La Prevenzione è la sorella negletta dell’Emergenza, così che in Italia abbiamo la Protezione civile più avanzata del Mondo e la Prevenzione completamente dimenticata.

Negli ultimi trent’anni a fronte di circa 3 miliardi di danni in media ogni anno per eventi di dissesto idrogeologico l’Italia ha speso non più di 300/400 miliardi l’anno per opere di prevenzione strutturale. Si tratta di una politica miope non solo per ciò che significa in termini di perdita di vite umane, di dolori e sofferenze per le comunità locali ma anche in termini economici con una semplice valutazione di analisi costi benefici. Una buona prevenzione, si può dire, che si pagherebbe da sé abbassando il livello dei danni e garantendo una maggiore sicurezza per la popolazione.

Italiasicura, la struttura di Missione creata nel 2014 per affrontare il tema della lotta al dissesto idrogeologico in Italia e che ha operato fino al 2018, ha cercato di invertire questo approccio parziale ed emergenziale puntando a definire un Piano di lungo periodo, aumentando le risorse destinate alla prevenzione e facendo crescere il livello di spesa annuale oltre quel modesto livello dei 400 milioni.  E non da ultimo innalzando la qualità della progettazione sia per valore intrinseco sia perché integrata con la progettazione degli interventi non strutturali che abbiamo visto rappresentano in molti casi un forte elemento di qualificazione della politica per la mitigazione del rischio.

Per la prima volta con Italiasicura è stato affrontato il tema della lotta al dissesto idrogeologico con una logica di Piano. Cioè è stata messa in campo una strategia che ha posto il problema della Prevenzione come una sfida di lungo periodo a cui corrispondere con strumenti adeguati e non come risposta impulsiva al “disastro di turno”. E che tenesse conto, oltre alle nuove opere, anche al tema della manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere realizzate, delle opere a difesa delle infrastrutture e infine dell’introduzione della ricerca, della tecnologia e dell’innovazione nella gestione del rischio idrogeologico. Tutte tematiche spesso dimenticate o sottovalutate in una logica di intervento “spot” senza programmazione.

Il primo argomento da affrontare, in questa logica di Piano, è quello della conoscenza. E’ difficile applicare una logica di Piano ad un tema che non è ben conosciuto e ben monitorato sulla base di dati oggettivi e scientificamente fondati.

La prima conoscenza è quella relativa al rischio idrogeologico nel paese. Ispra è una Istituzione di grande qualità. Che genera ricerche e dati statistici di qualità. Ma essendo parte di una rete di diversi soggetti, nazionali, regionali e locali talvolta soffre della disparità di approfondimento dei fenomeni a scala locale e anche della disparità di strumenti e metodi con cui vengono rilevati i fenomeni. Le mappe del rischio, relative alle alluvioni e alle frane, sono un patrimonio importante e significativo. Occorre investire continuamente per approfondire e aggiornare, sulla doppia base degli interventi fatti e delle modifiche strutturali dell’ecosistema prodotte dal cambiamento climatico, le informazioni di riferimento.

La seconda conoscenza è quella relativa al “parco progetti” che, ad una qualunque fase di progettazione, risultano nella disponibilità dei tanti soggetti in qualche modo coinvolti a livello nazionale, regionale e locale nella lotta contro il dissesto idrogeologico. Molto lavoro viene fatto oggi dalle neonate Autorità di Distretto idrografico ma occorre lavorare ad una “raccolta esaustiva” in tutte le Regioni italiane della progettazione esistente. La “raccolta” fatta da Italiasicura portò alla ricognizione di un fabbisogno di circa 35 miliardi di euro.

La terza conoscenza, la più difficile da acquisire, è quella relativa all’analisi economica dei danni attesi dagli eventi previsti. Si tratta di un dato importante per impostare un Piano che deve fondarsi su una seria analisi costi-benefici degli interventi. Tali interventi devono essere sempre di più selezionati per priorità, motivati per dimensione e generati e valutati attraverso diverse alternative progettuali. E non scelti per decisione “tutta politica”.

Il secondo argomento da affrontare è quello, anche questo piuttosto critico per un paese come l’Italia, della progettazione. Per svariati motivi, che vanno dall’economico all’amministrativo, dal tecnico al giuridico, in Italia la progettazione delle opere pubbliche non appare adeguata alle necessità sia per quantità che per tempi di esecuzione e talvolta anche per qualità. In questo caso la soluzione più adeguata, anche richiamando il vecchio approccio del FIO (Fondo sviluppo e occupazione) degli anni ’80, è quella di separare finanziariamente in una logica di “Piano a tempi concatenati” la progettazione dalla realizzazione degli interventi. Istituendo un Fondo per la creazione di un “parco progetti” selezionati attraverso indicatori economici definiti con l’analisi costi-benefici o almeno costi-risultato, in grado di rendere tempestivo, nel corso della realizzazione del Piano, il legame fra disponibilità finanziaria e apertura dei cantieri.

Viene quindi il problema annoso della realizzazione degli interventi che implica tre aree specifiche di interesse e di gestione: la ricerca di risorse finanziarie, le gare di appalto e la gestione di cantiere.

Sulla ricerca delle risorse finanziarie non c’è molto da dire: occorre unificare la gestione in un Fondo unico creando un soggetto unitario di governance a livello centrale, evitando la separazione e la diversità di impostazione strategica che deriva dalla “gestione per fondi e per agenzie” e non “per obiettivi”.  Dal punto di vista quantitativo occorre più che triplicare la spesa annuale che tradizionalmente non supera i 400 milioni all’anno. Ribaltando la logica tradizionalmente seguita: dal “troviamo i soldi e quindi investiamo” al “disponiamo di progetti eseguibili e quindi attraiamo le risorse”.

Il momento della gara d’appalto viene spesso sopravvalutato come elemento critico in termini di gestione amministrativa e tempi di realizzazione. Certo esistono superfetazioni burocratiche e pratiche create ad arte per perdere tempo. Ed esiste oltre al Codice degli Appalti, che si cerca giustamente di semplificare secondo una logica sistematica e non episodica, una serie di leggi e leggine che rendono la gestione della gara non sempre agevole. Ma, in generale, allorquando si individuano stazioni di appalto qualificate e supportate da strumenti tecnologici avanzati si può guardare alla gara come un momento facilmente gestibile nel processo di realizzazione di un’opera pubblica con tempi accettabili e con tassi di ricorso normali.

La realizzazione a cantiere ha forti elementi di gestione tecnica. Se il progetto è fatto bene le criticità derivano davvero, ed è inevitabile, da elementi imprevedibili e non gestibili in fase di progetto. E se il progetto è fatto bene è difficile anche da parte dell’impresa, oltre al minore spazio lasciato dalla nuova legislazione sui Contratti pubblici, avanzare varianti, riserve e cose del genere. Sul cantiere un’azione di “taglio dei tempi” potrebbe essere fatta attraverso la previsione di un maggior numero di turni con previsione, se serve, anche di turni notturni. Allorquando l’opera risulta urgente e l’impatto sulla vita della città o della località coinvolta appare rilevante la scelta di un maggior numero di turni può risultare giusta e adeguata in termini di costo-beneficio. La gestione del cantiere poi dipende strettamente dalla qualità dell’impresa appaltatrice. Il passaggio dalla logica del “massimo ribasso” a quello della “offerta maggiormente vantaggiosa” ha in parte migliorato la qualità dei “vincitori” delle gare di appalto. Ma il vero passo in avanti sarà prodotto dalla possibilità effettiva di utilizzare nei punteggi di assegnazione i “rating” delle imprese generati dalla qualità delle esperienze fatte nella realizzazione delle opere pubbliche e allorquando si smetterà di gestire “l’offerta maggiormente vantaggiosa” con la logica del massimo ribasso (attraverso una sottovalutazione, di fatto, del peso della qualità progettuale a vantaggio del peso dei costi).  

Per la realizzazione dei progetti si è affermato giustamente il ruolo commissariale del Presidente della Regione con la duplice veste di Amministratore regionale e Commissario di Governo. Questa duplice veste ha consentito al Presidente della Regione di utilizzare il legame locale, sia politico sia, attraverso i propri uffici regionali, tecnico, con il ruolo nazionale. Dalla esperienza di Italiasicura ad oggi il ruolo del Commissario-Presidente si è venuto rafforzando sia per interventi legislativi che per approcci organizzativi. Occorre andare avanti su questo modello responsabilizzando il ruolo del Presidente come unico referente per la realizzazione del Piano nei  territori.

Ed infine, importante in una politica di Piano, è il tema del Monitoraggio attivo. Monitorare le opere, il loro andamento finanziario e tecnico è un elemento essenziale di una buona gestione del Piano. In una logica di Piano il “Centro” deve essere un soggetto attivo e deve avere conoscenza in tempo reale dell’’andamento delle realizzazioni rispetto ai cronoprogrammi previsti e su cui c’è stato un accordo all’interno di una gestione unitaria fra “Centro” e “Periferia”. E allora vanno rafforzate le norme che prevedono poteri sostitutivi del “Centro” rispetto alla “Periferia” nel caso di inadempienza. Su questo punto non bisogna transigere. Le risorse vanno spese, spese bene e con tempestività. E l’azione della Corte dei Conti su questo punto, tesa a punire l’incuria e l’inadempienza che generano ritardi e blocchi ingiustificati nella realizzazione di opere per la sicurezza delle popolazioni, appare condivisibile.

Il monitoraggio delle opere deve prevedere una sola sede come la piattaforma, BDAP-Mop (Il sistema di Monitoraggio Opere Pubbliche della Banca Dati delle Amministrazioni Pubbliche) presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.  In tal modo il sistema ReNDiS tende a perdere la funzione primaria di piattaforma per il monitoraggio e acquisisce però quella, molto importante, di piattaforma per la gestione dell’Archiviazione del Parco Progetti. Utile per la messa a punto dei Piani stralcio e per la selezione dei Progetti secondo indicatori di analisi tecnico economica.

Dopo Italiasicura il ritorno al passato. Occorre riprendere il cammino.

Con la fine di Italiasicura si è fortemente indebolito il processo di costruzione del Piano e l’affermazione della logica programmatoria. E si è tornati, consapevolmente o no, al modello di risposta “spot”. Cioè prima si attendono le risorse disponibili, distribuite secondo logiche di assegnazione generale fra i diversi comparti della PA, e poi si mettono in atto le procedure di spesa. Inoltre, è ritornata la logica della separazione “per fondi e per agenzie” che contrasta oggettivamente con i tentativi di unificazione “per obiettivo”.

Il dissesto idrogeologico è oggi un “tema emergenziale”, tanto è oramai il ritardo accumulato sugli interventi strutturali necessari ad abbattere il “rischio paese”, ma è una politica che chiama in campo l’approccio preventivo di lungo periodo e non emergenziale. E questo richiede senz’altro una continuità di governance e di approccio che superi i limiti delle singole legislature.

Da questa criticità strutturale derivano anche tutte le altre: la difficoltà ad avere un quadro certo, approfondito e aggiornato di conoscenze sul tema, la mancanza di un “parco progetti” disponibile, il basso livello di risorse effettivamente spese per gli interventi strutturali, il mancato coordinamento fra interventi strutturali e gli interventi non strutturali, la marginalità delle spese per manutenzione, ricerca e innovazione tecnologica, la lunghezza delle gare di appalto e delle realizzazioni in cantiere e altro ancora.

Spesso si parla del tema dei tempi troppo lunghi per la realizzazione delle opere e quindi della necessità della semplificazione procedurale in tema di gare e di gestione dei cantieri.

Ma c’è, prima del tema della semplificazione e della accelerazione dei processi, un tema più rilevante. Ed è quello appunto relativo alla messa a punto istituzionale e procedurale di una Politica di Piano contro il dissesto idrogeologico.

Con tre scelte fondamentali. La definizione di un “Centro” che ha la titolarità completa del Piano. La individuazione di una “Periferia”, efficiente e corresponsabile, che ha il compito della realizzazione territoriale del Piano. La individuazione unitaria delle risorse finanziarie di lungo periodo.

Il tema della individuazione del “Centro” è il punto più rilevante. Occorre superare la frammentazione della governance e dare ad un unico soggetto la responsabilità di gestione del Piano e di coordinamento di tutti i soggetti, centrali e periferici, pubblici e privati, coinvolti in qualche modo e per qualche funzione nel processo. Una delle proposte avanzate a suo tempo da Italiasicura in un Convegno a Roma nel 2016 sulla Prevenzione, è quella di istituire presso il Dipartimento della Protezione Civile Nazionale, accanto alla gestione delle emergenze, una struttura di Prevenzione Civile. Si tratterebbe di un “Centro” che avrebbe il vantaggio di stare sotto la Presidenza del Consiglio, e quindi “capace” di coordinamento generale, e di far interagire “sotto lo stesso tetto” le politiche “non strutturali” e “post-evento”, di competenza del Dipartimento della Protezione Civile, con quelle della prevenzione. Inoltre, come per i Commissari, la gestione dei Fondi potrebbe essere inclusa nella “Contabilità Speciale” che è di più facile gestione contabile e amministrativa. 

La definizione della “Periferia” appare ben risolto con la individuazione dei Presidenti di Regione come Commissari di Governo per l’intera gamma degli interventi previsti a qualunque titolo sul territorio regionale. Va magari meglio specificato il procedimento di sostituzione del “Centro”, in caso di inerzia o di inadempienza del Commissario, che è utile come elemento di “chiusura” di un processo che può dar luogo altrimenti a livelli inaccettabili di inefficienza.

Sul tema delle risorse va mantenuto l’obiettivo di un miliardo e mezzo come livello minimo annuale di spesa per interventi strutturali per realizzare entro un decennio almeno la metà del fabbisogno accumulato nel tempo. Inoltre, andrebbe prevista una spesa di almeno 500 milioni per manutenzione delle opere, ricerca e sviluppo delle tecnologie. Si tratta di un obiettivo sfidante ma possibile per il sistema della finanza pubblica nazionale che gestisce un volume di spesa complessiva di circa 900 miliardi. Peraltro, nel corso del tempo, con la realizzazione degli interventi e la diminuzione dei livelli di pericolosità e di rischio si potrebbe assistere alla riduzione del livello annuale dei danni che ha registrato negli ultimi venti anni una media intorno ai 3 miliardi all’anno. 

Si tratta di una sfida per il paese. Ma con un solo “Centro” e una sola “Periferia”, efficienti e capaci di relazioni istituzionali fra di loro e con gli altri soggetti coinvolti nella lotta al dissesto idrogeologico fra cui è sempre utile ricordare il ruolo della cittadinanza attiva, l’Italia ce la può fare. Se nella gestione delle emergenze naturali l’Italia è riuscita a costruire una delle Protezioni Civili più qualificate al mondo appare del tutto possibile, e necessario, fare altrettanto con la Prevenzione. Che poi è il “primo passo” per rispondere con efficienza (meno costi) ed efficacia (maggiori risultati) alla naturale pericolosità e al connesso rischio del paese.

Mauro Grassi è Direttore di Earth and Water Agenda Foundation

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