Agenzia delle Entrate (e delle uscite): licenziato dipendente indagato, dopo tre gradi di giudizio

Ha violato l’obbligo del segreto d’ufficio, ha utilizzato a fini privati le informazioni di cui disponeva, ha violato l’obbligo di evitare situazioni o comportamenti che potessero nuocere agli interessi o all’immagine dell’amministrazione: insomma, una è una autentica sfilza di violazioni, quella che è costata il licenziamento ad A.R., dipendente dell’Agenzia delle Entrate di Reggio che tre anni fa era stato indagato nell’ambito dell’inchiesta della Procura sulla presunta ‘Tangentopoli’ all’interno dell’ente pubblico. In attesa di capire come si concluderà la vicenda sul fronte penale, è arrivato al giudizio della Cassazione sul fronte che riguarda l’aspetto disciplinare.

Il dipendente è stato licenziato e ha perso i ricorsi in tre gradi di giudizio: primo grado, appello e Cassazione. La suprema Corte, con sentenza depositata il 30 novembre scorso, ha confermato che l’uomo non potrà rimanere a lavorare alla Agenzia del territorio di Reggio. L’uomo ha messo in atto un campionario di azioni scorrette: ha avuto accesso abusivamente al sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria per ragioni diverse da quelle di servizio; ha acquisito dai colleghi di lavoro informazioni e notizie relative a pratiche non di sua competenza; e infine, ciliegina sulla torta, ha comunicato a soggetti terzi i dati relativi agli accertamenti in corso.

Il sette ottobre 2014 la Pubblica amministrazione datrice di lavoro colpì A.R. con la sanzione disciplinare del licenziamento. Da quel momento partì una serie di ricorsi da parte del dipendente. Dopo aver perso l’appello, il lavoratore si è rivolto alla Suprema Corte contestando una applicazione non corretta delle leggi sulla giusta causa. In particolare, questa la tesi di A.R., il suo caso sarebbe rientrato in una fattispecie che richiedeva solo la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni a sei mesi, per un omesso obbligo di vigilanza e controllo.

La Corte però ha ritenuto che quanto sostenuto dal ricorrente non potesse essere applicato al suo caso, in quanto egli stesso aveva messo in atto i comportamenti contrari alla disciplina contrattuale: non si trattava di un mancato controllo su soggetti terzi. Il comportamento contestato ad A.R. è definito dai giudici “ben più grave” di quello che si attribuisce nella sua difesa. Le argomentazioni del ricorrente sono state quindi rigettate ed A.R., secondo la Cassazione, è stato licenziato in modo perfettamente legittimo.

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