Affaire Chiti e riforme, “Lunedì decideremo il da farsi”

Firenze – “No, non voglio aggiungere altro sulla questione. E’ stato già detto abbondantemente e anche troppo. Lunedì avremo un incontro. E decideremo i prossimi passi”. Glissa con eleganza la domanda d’obbligo, Vannino Chiti, l’uomo del Pci toscano, quello che assunse la carica di coordinatore dei Ds, il senatore, colui che primo della lista è “caduto” sotto la “riprovazione” (mannaia, dicono alcuni) del nuovo corso Pd che vuole fare le riforme. In primis, quella del Senato, vale a dire, questo il profilo più importante su cui si gioca buona parte della partita sia a livello di ingegneria costituzionale sia a livello politico, spezzare il rapporto di rappresentanza diretta che lega i senatori ai cittadini. In altre parole, non più votati ma nominati.

E dov’è la differenza con ora? Si potrebbe chiedere provocatoriamente, riferendosi alle liste bloccate. Ebbene, proprio le riforme istituzionali sono state il tema dell’incontro-conferenza che ieri si è tenuto alla redazione di “Testimonianze” la rivista socio-politica diretta da Severino Saccardi. E proprio Saccardi, da vero padrone di casa, ha sostenuto e diretto un dibattito che rischiava di rimanere intrappolato nella querelle degli ultimi giorni, quella che ha visto l’azione (preventiva, dice Chiti) della sostituzione di almeno tre membri della Commissione Affari Costituzionali: a partire da Mario Mauro, Popolari per l’Italia (pezzo Udc del “passato” Scelta civica) con il colpo a sorpresa di Vannino Chiti per finire con quello che è diventato un vero e proprio “casus belli” che è la sostituzione di Corradino Mineo. Rei, secondo il gruppo maggioritario del Pd, di non condividere il disegno di legge che ha prodotto la maggioranza al governo del paese e del partito, e dunque non affidabili per quanto riguarda il voto in aula. Insomma, fuori e prontamente sostituiti con persone “gratae”. Una questione molto pesante per il Pd (autosospesi Corsini, Casson, D’Adda, Dirindin, Gatti, Lo Giudice, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, Turano, Francesco Giacobbe) e lo stesso governo, tant’è vero che indusse Mineo “a botta calda”, a dichiarare che si trattava di un pericoloso autogol per la maggioranza interna. Il che è tutto da vedersi. Magari nell’assemblea del gruppo di martedì, che vedrà un confronto, c’è da scomettersi, molto teso.

Ma, al di là delle questioni strettamente politiche, ieri si è avuta l’occasione, pronubo il direttore di Testimonianze, di comprendere finalmente il nocciolo della questione che divide il Pd. Infatti, a parte i dieci senatori che si sono autosospesi alla notizia delle defenestrazioni dalla commissione dopo Chiti, anche di Mineo, in realtà la questione della riforma del Senato è molto più antica. Tant’è vero che il disegno di legge proposto da Chiti, che è un esperto riconosciuto di federalismo e sistemi elettorali, sembra a prima vista non andare in una linea molto diversa rispetto a quello della maggioranza. Il titolo? Eccolo: “Istituzione di un Senato delle Autonomie e delle Garanzie e riduzione del numero dei parlamentari”. Il disegno di legge è diviso 15 articoli e propone: intanto, una riduzione proporzionale del numero dei parlamentari, comprensiva dunque di Camera e Senato. Di quanto? Ecco i numeri: dimezzati i deputati, ridotti a cento i senatori, si arriva a 415 parlamentari. In secondo luogo ma non per questo meno importante, prevede l’elezione diretta per i componenti del nuovo Senato. Elezione diretta che tuttavia viene giustificata dal fatto che il testo differenzia i compiti delle due camere, dal momento che i senatori in questo sistema sono eletti su base regionale. Il modello è con ogni evidenza quello della assemblea tedesca, il Bundesrat. Inoltre, via i nominati: non ci sarebbero più i senatori a vita di nomina presidenziale, e la carica andrebbe solo agli ex-presidenti della Repubblica. Ultima annotazione: il sistema sarebbe infine composto da un numero più basso di membri rispetto al disegno di legge Boschi-Renzi.

E allora, perché non va? E perché la reazione durissima avuta dai membri della maggioranza del Pd e da tutti i quadri intermedi e non della nomenklatura renziana? Una risposta potrebbe essere quella della disciplina di partito. Ma su questo Chiti, il ligio e disciplinato Chiti, che ha attraversato tutti i cambiamenti epocali del partito senza mai defilarsi in aula sui voti decisi dal Pci-Ds-Pd, ha molto da dire. Innanzitutto, la prima quaestio è: qual è il disegno di legge della maggioranza? Perché, dice Chiti sostenuto con grande passione dall’altro protagonista della giornata fiorentina, il professor Gianfranco Pasquino,  un disegno di legge preciso, con una struttura congegnata e definita, non c’è. “O almeno – commenta il professore – a me non è stato dato di vederla”. Ma, sembra di capire, non è fisicamente certa neppure per Chiti. E allora, di cosa si sta discutendo?

Secondo punto, sollevato anche da un ex-parlamentare presente ieri alla discussione, Quercini, il problema che la “disciplina” di partito, che vale in aula ovviamente nel momento in cui si vota il testo di legge che è scaturito dai confronti in commissione, non può valere (e non è mai valsa) nel momento della discussione stessa, vale a dire, nel momento del confronto in commissione. Altrimenti, che discussione è, si chiedono i partecipanti al dibattito.

Terzo punto, sono sempre esistite, scaturite dal confronto di commissione, mozioni e relazioni diversificate. Certo, non devono “intralciare” il percorso del disegno di legge di maggioranza. Sì, ma è necessario che quest’ultimo ci sia, e sia definito. Cosa che, per ora, sostiene Pasquino, “tutto è confuso, ed esiste un gran caos”.

E si torna a bomba. Ma se il disegno di legge del governo non è ancora preciso, come è possibile che si sia intervenuti su membri della commissione per sospenderli mettendo uomini d’ordine al loro posto? Forse perché quello che si conosce non è così pacifico per tutto il Pd. Partiamo dai 4 paletti imposti dalla maggioranza: no voto di fiducia, no voto su bilancio, no elezione diretta dei senatori, no indennità per i senatori. Bene. E la composizione? Su questo, o meglio sullo specifico, circolano voci. Di certo, si può dire che si parla di un Senato delle autonomie composto in maniera paritaria, in modo da avere rappresentanti delle Regioni e dei Comuni in numero eguale per ogni regione. Un occhio al modello americano, piuttosto che quello tedesco? E, alla fine fine, il Senato sarebbe la risultanza di 3 soggetti istituzionali: Quirinale, Regioni, Comuni. La differenza con il Budensrat è evidente.

Ed è evidente, aggiunge il professo Gianfranco Pasquino, che ci troviamo di fronte a un disegno di legge confuso e caotico, impostato per l’oggi e per il momento, non certo per quell’architettura istituzionale che la Costituzione presuppone e di cui è figlia. Infatti, se la Costituzione è una casa, togliere, modificare o mettere è operazione delicata che richiede aggiustamenti e riequilibri da altre parti. E se le repliche del ministro Boschi si configurano come “imbarazzanti” per Pasquino, nessun dubbio che tutto questo non celi affatto, come paventato da qualche presente, un attacco alla rappresentanza dei cittadini in vista di cambiamenti istituzionali pesanti. Insomma, nessuna (volontaria) reductio ad unm. Anche perché, dice il professore, “non c’è lo spessore”.

Conclusioni del padrone di casa, Severino Saccardi, che interviene lanciando il tema della legge elettorale, anche questa in lavorazione, ricordando che lo stesso sistema elettorale della Regione Toscana è ancora fermo al porcellum. anotazione interessante, visto che lo stesso Saccardi entrerà a far parte dell’assemblea elettiva della Regione Toscana nell’ultimo scorcio. E dichiara che si impegnerà proprio per il cambiamento (sempre atteso, mai avvenuto) del porcellum versione regionale. Infine,  rivolgendosi a Pasquino e citando un suo famoso saggio, dice: “Sono d’accordo con te: è necessario rendere lo scettro al Principe”. Vale a dire, al Popolo. Operazione che prevede e richiede un elemento fondamentale: ampliare gli spazi di rappresentanza. Non restringerli.

 

 

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