Ci sono quei viaggi che non ti aspetteresti mai di intraprendere finché non ti piomba addosso una coincidenza che ti spinge ad andare. Nel mio caso è stata colpa dell’anno 1992: lo stesso della mia nascita e dell’inizio ufficiale dell’assedio di Sarajevo, datato 5 aprile 1992. Avere la stessa età di una guerra mi sembrava un motivo sufficiente per partire per la Bosnia e andare a scovare le storie di quei tanti giovani che sulle macerie del conflitto sono nati e sono in parte transitati.
Arrivo a Sarajevo. Se non ci sei mai stato, la Bosnia ti costringe all’ascolto. E’ facile sentirsi sprovveduti davanti alla complessità del conflitto che ha interessato i territori dell’ex Jugoslavia dal 1992 al 1995 ed è ulteriormente facile partire dall’Italia con un bagaglio di stereotipi che in qualche modo ti dovrai scrollare di dosso appena valicato il confine. In primo luogo, il fatto che la Bosnia sia tuttora un paese pericoloso, una sorta di buco nero in cui si vive sulle ferite del passato nella speranza di un riscatto che tarda ad arrivare. Al contrario, quello che ho visto è un paese che lentamente si è ricostruito dalle fondamenta, che lotta ogni giorno per liberarsi dal peso di certe etichette, in cui i giovani sanno l’inglese meglio di noi italiani, studiano per diventare i nuovi ambasciatori di una Bosnia che il passato se lo sta lasciando alle spalle. “Oggi chi continua a parlare solo della tragedia, per di più in tono retorico, non fa del bene alla Bosnia” mi ha detto un ragazzo di Srebrenica. Quello che ho incontrato è dopotutto un paese che chiede rispetto delle proprie ferite, ma non vuol essere accantonato.
Sarajevo si porta dietro l’assedio come un marchio indelebile nelle menti dei suoi cittadini, nelle ferite dei palazzi e nei morti disseminati ovunque in cimiteri dalle lapidi bianche o nere. Ma è anche la capitale dei locali stracolmi di gente, dei tanti giovani universitari che di notte vanno a ballare come i ragazzi di tutto il mondo. Sarajevo è una delle poche capitali al mondo in cui ti svegli con il richiamo del muezzin che si intreccia al suono delle campane della cattedrale cattolica, in cui le differenze etniche e religiose che un tempo fomentarono la guerra tra i potenti oggi sono una ricchezza da cui ripartire.
Le speranze dei giovani. All’indomani del nostro arrivo a Sarajevo ho incontrato Jovan Divjak, per tutti “il gran generale”. Serbo di nascita, durante la guerra fu vice comandante della difesa territoriale della Bosnia. Basterebbe questo per capire l’eccezionalità di Divjak. Militare con la passione per i bambini, si è sempre considerato un “bosnian” pur essendo nato a Belgrado. Nel 1994 ha fondato l’associazione “Education builds Bosnia Herzegovina” e ha preso per mano le migliaia di orfani di guerra che senza un sostegno economico non avrebbero avuto alcun futuro. Ho avuto la fortuna di parlare con quattro di loro che ora hanno vent’anni come me, vanno all’università e hanno girato per il mondo grazie alle borse di studio che si sono meritati. Ecco un altro stereotipo caduto: questi sono giovani che hanno perso i propri genitori nel conflitto, ma sono tutto fuorché persone malinconiche e prive di prospettive. “La guerra è parte della mia vita, mi ha tolto mio padre, ma si deve andare avanti. Noi giovani abbiamo altro a cui far fronte” mi confessa Melina. I ragazzi in Bosnia lottano contro un livello di disoccupazione giovanile che sfiora il 50 %, contro una casta al governo che non crede nelle politiche giovanili, contro una cultura allo sbando che vede i sette principali musei della Bosnia prossimi alla chiusura. Molti giovani bosniaci preferiscono fuggire dal proprio paese e andare a studiare in Europa, soprattutto in Germania. Molti non ritornano più a casa, in Bosnia rimangono le donne e gli anziani.
Quelli che rimangono. Eppure ci sono quei ragazzi che nell’anima del proprio paese credono e lì rimangono. Ne sono esempio gli incontri che abbiamo fatto a Srebrenica. Villaggio a est di Sarajevo, entrato nella Republika Srpska da quel luglio 1995 in cui le truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić si macchiarono del genocidio di Potočari , proclamando serbo il territorio di Srebrenica. Hariz, regalandomi degli orecchini a forma di cuore, si è confidato: “Questa è l’anima di Srebrenica. Non la potrei trovare in nessun altro luogo al mondo. Lo so che qui non c’è nulla, non c’è speranza per il futuro. Lavoro nel motel di famiglia, ma i clienti che si vedono ogni giorno non sono tanti. Eppure rimango. Mi sento a casa. Fatemi il piacere di non ritenere Srebrenica un buco nero nell’universo, abbiamo voglia di aprirci al mondo, di far sapere a tutti che questo non è solo il luogo del dolore. I turisti si innamorerebbero della Bosnia se solo venissero a visitarla”.