Adolf Wölfli, quando violenza e follia fanno arte

La storia di un artista internato in manicomio come schizofrenico e criminale

La produzione artistica di Adolf Wölfli, pittore svizzero nato il 29 febbraio del 1864, è certamente molto interessante se letta alla luce delle tormentate vicende biografiche dell’autore. Figlio di un intagliatore di pietra e di una lavandaia, Wölfli trascorse la propria vita tra Schangnau e il manicomio di Waldau. La sua infanzia fu profondamente segnata dalle violenze di un padre alcolizzato che presto abbandonò la famiglia, e dalla separazione dalla madre e poi la sua prematura perdita. In seguito ad accuse di molestie e stupri, nel 1895 venne dichiarato schizofrenico e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico, dove iniziò a disegnare, scrivere e comporre musica, lo stesso luogo in cui rimase fino alla fine dei suoi giorni, che avvenne nel 1930. Proprio al periodo conseguente l’ingresso a Waldau, tra il 1904 e il 1906, risale la prima serie di disegni a pastello, che attirarono l’attenzione di Walter Morgenthaler. Morgenthaler fu lo psichiatra che incoraggiò la sua espressione artistica e curò la pubblicazione “Ein Geisteskranker als Künstler”, opera sulla vita e l’opera di Wölfli, attraverso cui, nel 1921, lo fece conoscere al mondo dell’arte. Lo studio di Morgenthaler si incentrò soprattutto su come un individuo privo di un’istruzione (se non estremamente elementare), pedofilo, alcolista, violento e psicotico potesse essere allo stesso tempo brillante pittore, scrittore e compositore. E ciò che portò il soggetto ad apparire ancora più interessante fu la completa assenza di tutte queste forme espressive, in precedenza al suo ingresso in manicomio. L’arte fu per lui il calmante, ciò che allontanava provvisoriamente le allucinazioni e controllava l’aggressività, immersione in un mondo parallelo d’invenzione, calmo e felice. Wölfli realizzò in trent’anni 1300 disegni, quaderni di scritti, una biografia dal titolo “La leggenda di Sant’Adolfo”: la sua fu una produzione maniacale, necessaria a mantenersi in uno stato di quiete. I suoi disegni sono espressione di uno spiccato horror vacui, ripetizioni ossessive di elementi geometrici, successione di rappresentazioni primitive di paesaggi e persone intrecciate a calligrammi, pentagrammi e note, spesso in composizioni simmetriche in tinte pastello, che ricordano i motivi dei tappeti orientali. Nella scrittura, allo stesso modo, denota uno stile personalissimo e creativo: inventa parole, stravolge significati, inverte lettere, scrive non-sense con grande proprietà del ritmo della scrittura. Michele Mari li definisce “giochi di parole degni delle filastrocche di Lewis Carroll o dei limerick di Edward Lear”. Fu precursore dunque degli stili che si avvicendarono nel corso del novecento in pittura e scrittura, dal primitivismo alla poesia in forma di disegno. Anticipò perfino Andy Warhol, realizzando un’opera chiamata “Campbell’s Tomato Soup” nel 1929, raffigurante la stessa marca di zuppa che rese celebre la figura centrale della Pop Art, trent’anni dopo. Le stesse influenze, la potenza incredibile della pubblicità erano già evidentemente note alla mente di Adolf Wölfli, molto prima che diventassero oggetto di studio degli artisti. L’uomo e la sua arte furono liberi dai condizionamenti e vissero una obbligata separazione dal mondo esterno, dal quale fu dunque per loro impossibile subire influenze: per questa loro libertà furono in grado di evolversi separatamente e costituirsi come avanguardia. La figura di Wölfli interessò Freud, Breton e infine Dubuffet, che nel 1945 lo annoverò tra i grandi dell’Art Brut riportando ancora una volta l’attenzione su questa figura controversa, dotata di enorme fantasia e certamente anticipatrice nella storia dell’arte.

Anna Vittoria Zuliani

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