Firenze – La memoria fa strani scherzi. Mi sembrava difatti di averlo visto, l’ultima volta, molto tempo prima o anche molto dopo. In realtà era il 15 novembre scorso quando ci trovammo a cena da Giovanna Carabba per ricordare il comune amico Claudio, il grande Ciccio, nel terzo anniversario della sua improvvisa scomparsa, beato, nel sonno, senza accorgersene, però lasciandoci affranti: così non si fa.
Invece, è toccato a lui andarsene, ma senza identica fortuna, forse trattandosi di uno sciroccoso venerdì 17 di anno bisestile, notoriamente menagramo. Roberto Toni, anni 82, uomo di teatro (un gran bell’uomo) ha chiuso il sipario del suo ultimo spettacolo in un ospedale di Firenze, travolto dal male che ormai l’aveva condannato.
Sapendo poco delle sue precipitate condizioni, ieri sera dopo cena gli avevo mandato un ennesimo sms affettuoso confidenziale: “Ciao Rob, so che stai poco bene, non fare il bischero. A presto. Abbraccio”. Credo che non l’abbia mai visto. Da quanto ho capito, era già tra i più.
Quel 15 novembre da Giovanna era però decisamente in forma rispetto allo standard declinante degli ultimi anni. Una frattura cadendo in casa, poi un tumore alle corde vocali, in più l’amarezza dei progetti teatrali svaniti, l’avevano molto prostrato. Vecchiaia, malanni, depressione. Brutte bestie. Per di più si era conclusa anche la breve stagione che a Firenze lo aveva riportato dopo anni a programmare il Teatro Niccolini, un’avventura che, per quanto breve, gli aveva rallegrato l’esistenza di nuovo in bella complicità con Carlo Cecchi.
In forma, occorre dirlo, per Roberto Toni aveva significato sarabanda a 360 gradi. Grande impresario teatrale, grandi progetti, grandi successi professionali, grandi bevute, gran fascino, grandi donne e grande amicizia. Per una decina d’anni tra i Settanta e gli Ottanta Roberto, Ciccio Carabba e il sottoscritto abbiamo fatto terno fisso. Con mogli, figli (e fidanzate a raffica), sempre fedelissimi e infedeli, apertissimi all’imprevisto in gonnella, odiosi e mafiosi se si vuole, ma senza mai abbandonare il nido.
Roberto, in particolare, era un mattatore nato, uomo di spettacolo lui stesso, colto e fantasioso, capace di tenere banco ovunque, con qualunque audience, con grinta, intelligenza e humour: vuoi le stanche riunioni del Pci, vuoi i fumosi summit dell’Eti, l’ente teatrale di cui fu a lungo vicepresidente, tanto più scatenato nelle serate con gli amici più o meno famosi oppure, come Benigni, destinati a diventarlo.
In quegli inverni di Firenze preturistica eravamo di casa da Riccardo Del Turco al Caffè di Piazza Pitti, uno dei pochi tiratardi decenti, dove tra marchese e contesse capitavano a far baldoria anche personaggi imprevedibili, Fellini e Veruscka, Gassman e Massimo Ranieri, Anna Bonaiuti e Tadeusz Cantor, Benigni e Carlo Monni sempre in ciabatte, Ronconi con la Nunzi, e naturalmente il Franco Camarlinghi allo zenit dell’assessorato alla cultura. Ricordo perfino una giovanissima Stefania Craxi intrigata dal tentacolare attor giovane Mario Pachi.
Roberto Toni dirigeva i mmancabilmente da par suo, divertendosi e divertendo, brillante e brillo (anche fingendo, perché l’alcol lo reggeva bene), oratore femminaro impenitente, ma sempre innamorato della sua Maddalena, cui volentieri dedicava a squarciagola il tormentone di Eduardo De Crescenzo “perché io da quella sera non ho fatto più l’amore senza te”.
Per la bella stagione Roberto e Maddalena prendevano in affitto una villetta nei boschi dell’Impruneta e lì ci si radunava con le famiglie nei weekend, ora che erano anche diventati genitori di Lorenzo, un bel bambino che trent’anni dopo li avrebbe resi nonni. Da padre quarantenne Roberto era felice, si sentiva realizzato.
In quella casa passammo, per la verità, anche una domenica di sconforto con le orecchie incollate alla radio: all’ultima di campionato la nostra Fiorentina e la Juventus si giocavano lo scudetto a distanza. Il gol annullato a Graziani contro il Catanzaro e un rigore di Brady a Cagliari decisero la sfida. Tutti ebbero l’impressione della congiura. Juve merda nacque difatti in quella circostanza. Noi in lacrime depressi al punto, se rammento, che non si cenò neppure.
Poi successe che io e Claudio lasciammo Firenze per lavorare a Milano, mentre la crisi crescente del teatro (soldi pubblici sempre meno) cominciava a fiaccare le energie di Roberto. Quando molti anni dopo rientrammo a Firenze, gli umori non erano più gli stessi. Il terzetto era ormai sciolto e non si è più ricomposto a parte incontri episodici, telefonate, visite estemporanee. Roberto frequentava altra gente, Ciccio inseguiva il suo destino e anch’io avevo ora un figlio a cui badare.
Fui contento, qualche anno fa, quando Roberto mi disse che avrebbe tratto volentieri una pièce per il teatro da un libro che avevo appena pubblicato e che gli era piaciuto molto. “Se trovo i soldi”, avvertì. Non li ha mai trovati, però chi se ne frega? Io già mi consideravo più che soddisfatto di quel suo bell’apprezzamento.
“Ma quanto scrivi, Riccardino?”, mi rispose tempo fa, prendendomi in giro per i tanti post, forse troppi, che pubblico su facebook. Allora insistetti, dai venite a cena da noi. E siccome si muoveva male dopo l’incidente in casa, più volte gli proposi di andare a prenderlo in auto o con la moto. È finita che ci ha invitati lui in una trattoria di sua fiducia in Oltrarno, salvo poi disdire per l’acutizzarsi del problema alla gola per cui doveva subito operarsi.
Però, come dicevo, quel 15 novembre da Giovanna Carabba era di nuovo in forma, perfino dimagrito. Certi malanni vanno e vengono. Maddalena era splendida, una dea. Dipinge, fa da sempre cose bellissime. Nel corridoio di casa nostra abbiamo un suo grande dipinto al contrario su vetro, una sfinge che mi regalò cinquant’anni fa. Per quanto lui sia sempre stato un istrione plateale, lei per reazione ha sempre tenuto un profilo basso, riservato, quasi timido. Gran coppia. Roberto hai una moglie fantastica, gli dissi. E lui estrasse dal portafoglio un paio di foto hollywodiane di madame Toni. “Èh?”, faceva, orgoglioso, “Èh?”.
Si chiacchierò parecchio quella sera. C’era anche Innocenzo Mazzini, il medico ex vicepresidente della Figc travolto incolpevole da uno dei tanti scandali del calcio, quello che nel 2006 costò la retrocessione alla Juventus poco prima della vittoria dell’Italia nel mundial tedesco. Ovviamente si parlò allegramente di sport (la Fiorentina dell’americano Commisso), di politica, di donne, di pettegolezzi vari e del bel tempo che fu.
In questi ultimi giorni ho risentito Roberto più volte via Whats ap. Volevo portargli un libro, ma non me l’ha permesso. “Non ė il caso”, mi ha scritto, “Non ho più voce”. È stato il suo ultimo messaggio. Ora mi accorgo che del vecchio terzetto sono il solo sopravvissuto. In vista degli ottant’anni mi chiedo per quanto ancora. Quante albe mi rimangono, quanti abbracci prima che anche il mio filo d’argento si spezzi.