Alcuni osservatori lo dicevano già prima del referendum, uno studio Assonime (Unione delle gradi società per azioni) lo conferma dopo il voto: a seguito del referendum sull’acqua le tariffe non caleranno. Anzi. Le bollette sono destinate ad aumentare per assestarsi sulla media europea, che è più alta di quella italiana. Per quanto riguarda la pubblicizzazione del servizio idrico, in assenza di una nuova legge si fa riferimento alle norme europee, che delimitano rigorosamente le possibilità di gestione pubblica “in house” al 100% e incentivano le gare ad evidenza pubblica con partecipazione di società private o pubblico – private.
Attenzione: si parla di tendenze, nel senso che ancora nessuno può sapere con certezza che tipo di scenario si andrà costruendo nei prossimi mesi. Il Parlamento dovrebbe fare una nuova legge che regoli il settore dell’acqua. Nel frattempo, va ricordato che restano in campo gli Ato, gli ambiti territoriali che hanno funzionato spesso come calmieratori del prezzo dell’acqua. Quindi gli aumenti potrebbero essere graduali e finire col pesare relativamente poco sulle tasche dei cittadini. E’ certo però che si pagherà sempre di più e i referendari farebbero bene a farsene una ragione. Vediamo meglio nel dettaglio perchè.
Il vero nodo della questione sta nel fatto che, come riportato nello studio Assonime, il voto del referendum abroga una legge a cui si sostituisce la normativa europea. Questa si basa sul principio del full cost recovery, in base al quale la tariffa deve tendere alla copertura dei costi, incluso il costo degli investimenti. Che succede in Italia? Il costo del servizio non viene ripagato dalla tariffa nel suo totale, ad esempio gli investimenti non sono coperti in toto. La rete idrica italiana è un colabrodo e necessita per i prossimi anni di forti investimenti. Molte multiservizi per trovare risorse hanno fatto accordi con investitori privati: si pensi alla collaborazione tra Iren e il fondo F2i, che dovrebbe lanciare la nostra multiservizi come prima o seconda realtà italiana nella gestione di acquedotti. Una mossa, quest’ultima, che in teoria è stata sconfessata dal referendum, visto che dai cittadini è venuto un forte input ad una gestione totalmente pubblica. Ma gli stessi cittadini saranno felici di assumersi il peso della scelta effettuata? Gli enti pubblici dovranno far sì che la crescita della tariffa sia spalmata equamente sulle fasce sociali, magari con l’introduzione del pagamento per fasce Isee.
Occorre essere chiari. La scelta della piena copertura dei costi nella tariffa, contrariamente a quanto si possa pensare, è un principio di civiltà. Esso funziona come antidoto agli sprechi d’acqua: il basso prezzo agevola gli usi impropri e non copre le operazioni per “tappare” le falle nella rete. Bisogna infatti ricordare che dietro al livello mediamente contenuto delle tariffe in Italia, si nascondono decenni di investimenti mancati: il risultato è una dispersione di acqua che grida vendetta. E’ bene quindi che le amministrazioni locali siano “costrette” ad assumersi la responsabilità di mettere in bolletta anche gli investimenti. Si porrebbe fine al solito giochetto all’italiana per cui da una parte l’amministrazione si fa bella facendo finta di far pagare poco un servizio, salvo poi compensare questo gettito insufficiente con altre tasse, inutili e magari eccedenti il necessario, che vanno a coprire inefficienze e “marchette”.
Ora per le amministrazioni pubbliche è in arrivo una sfida difficile: recuperare il terreno perso. Serviranno 64 miliardi di investimenti nei prossimi 30 anni per rattoppare e mantenere la rete idrica italiana. Con o senza l’intervento dei privati? Dallo studio Assonime emerge che l’intervento di soggetti privati nella gestione delle reti sarebbe positiva: porterebbe efficienza laddove fino ad oggi non c’è stata e consentirebbe un contenimento degli aumenti. Per capirci: non sarebbero i cittadini a doversi far carico per intero di quei 64 miliardi ma ci penserebbero le società di gestione, in cambio di una remunerazione. Il quadro che fa lo studio Assonime sconsiglia quindi una gestione totalmente pubblica, ma resta in ogni caso un quadro molto problematico.
Il referendum, dicevamo, ha abolito la remunerazione nella gestione del servizio; è quindi inevitabile chiedersi come e cosa ci guadagneranno i privati ad entrare in questo settore. Com’è possibile che fondi di investimento che rendono anche il 15%, oltre i sogni perversi di qualunque piccolo investitore, mettano soldi in un settore come l’acqua che, a sentire gli amministratori locali, rende molto molto meno? L’impressione è che in Italia si stia percorrendo la strada della costruzione di un monopolio o duopolio della gestione dell’acqua: grandi aziende miste pubblico – privato che si contendono tutti gli appalti di gestione. Le multiservizi stanno stringendo alleanze e perseguono la strada della fusione verso soggetti sempre più grandi. A quel punto la “scala” del business garantirebbe gli introiti necessari a remunerare il privato investitore. Resta comunque inquietante la prospettiva in cui due “giganti” di livello nazionale si mettono al tavolo con i piccoli Ato provinciali per discutere di tariffe (o imporle?). Serve un’agenzia indipendente che controlli su procedure e attività e che abbia potere di stroncare le gestioni negative per i cittadini. Se gli aumenti in bolletta coprono gli investimenti si possono accettare; se invece servono solo a remunerare gli interessi di grandi manager e di grossi investitori – speculatori coperti da anonimato dietro ai grandi fondi di investimento, siamo in una prospettiva da evitare. Una agenzia indipendente che revochi d’imperio la concessione della gestione a sogetti speculatori potrebbe essere una buona medicina.